venerdì 20 dicembre 2013

Una nuova ricostruzione dell'efficacia dei principi generali nel diritto dell'Unione europea


di Rosario Sapienza

Giunge in questi giorni in libreria il volume Principi generali e diritto derivato. Contributo allo studio del sistema delle fonti dell'Unione europea pubblicato dalla casa editrice Giappichelli nella collana del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania. Si tratta di un tipico e assai pregevole  prodotto dall’ approccio accademico italiano alla problematica del diritto dell’Unione europea. L’autrice, ricercatore di diritto dell’Unione europea presso l’Università di Messina e ivi professore aggregato della medesima disciplina, appartiene alla schiera dei giovani e agguerriti cultori delle nostre discipline dalle quali noi della generazione di mezzo ci attendiamo un valido supporto e un importante contributo all’approfondimento di un fenomeno così complesso quale indubbiamente è il diritto dell’Unione europea.
Il saggio, di impianto monografico, si presenta  come una ricostruzione critica della categoria dei principi generali, che l’autrice considera, in adesione a un’autorevole posizione dottrinale,  come una fonte di diritto primario dell’ordinamento giuridico  dell’Unione. L’opera si articola in tre capitoli. Nel primo capitolo si individuano le caratteristiche salienti della categoria dei principi generali del diritto, attraverso una ricostruzione attenta della evoluzione della concettualizzazione dei principi stessi nella giurisprudenza della Corte di giustizia. Nella sopra delineata prospettiva di una prima analisi, nel secondo capitolo si analizza la giurisprudenza della Corte sul complesso rapporto che si istituisce  tra i principi generali e le  direttive. Il terzo capitolo evidenzia poi  come i principi generali siano divenuti lo strumento attraverso il quale garantire la “tenuta” del sistema, ossia perseguire l’ “effettività” del diritto dell’Unione, nella duplice forma dell’effettività del diritto tout court e dell’effettività della tutela giurisdizionale dei singoli.
La Vitale offre così una prima ricostruzione della giurisprudenza della Corte di giustizia mirando a cogliere il nuovo rapporto che essa, in specie con una serie di recenti ed innovative pronunce, ha inteso istituire tra i principi generali e le altre fonti del sistema, con particolare riguardo agli atti di diritto derivato.  Un utile contributo alla sistemazione scientifica di una materia tanto nuova quanto complessa e che conferma le doti di attenta studiosa già evidenziate dal precedente lavoro monografico su Diritto processuale nazionale e diritto dell’Unione europea (Ed.it, Firenze, 2010) volto a indagare il cosiddetto principio dell’autonomia procedurale del diritto nazionale nel sistema dell’Unione.




mercoledì 18 dicembre 2013

In libreria la quarta edizione di Diritto Internazionale. Casi & Material



                                                                         di Rosario Sapienza
Mi faccio assiduo, me ne rendo conto, ma non posso fare a meno di segnalare l’arrivo in libreria della quarta edizione del volume Diritto Internazionale. Casi e Materiali, da me curato per i tipi della casa editrice Giappichelli. Questa edizione presenta non poche diversità rispetto alle tre edizioni che la hanno preceduta (1999, 2002, 2007) ognuna delle quali, peraltro, non era mai stata soltanto la ... ristampa aggiornata delle precedenti, ma in uno sforzo di costante adeguamento alle sempre mutevoli esigenze della didattica, si era presentata sempre funzionale a nuovi contesti e nuove strategie formative.
L’attuale, comunque, si presenta, se possibile, ancor più … diversa. In primo luogo perché di essa io non sono l’autore, ma il curatore e, in secondo luogo, perché la scelta dei materiali è quasi esclusivamente orientata verso la giurisprudenza italiana.
 I materiali raccolti in questo volume sono, infatti, alcuni tra quelli elaborati all’interno del gruppo di lavoro “Giurisdizioni nazionali e diritto internazionale” attivo presso la Cattedra di diritto internazionale e diritto dell’Unione europea da me diretta nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania.
Il Gruppo di lavoro “Giurisdizioni nazionali e diritto internazionale” è composto da giovani studiosi del diritto internazionale e del diritto dell’Unione europea ed è stato costituito nel 2007 in appoggio al corso avanzato “Il diritto internazionale nel processo italiano” avviato proprio in quell’anno accademico, e ciò secondo la prassi seguita fin dal 2001, anno in cui venni chiamato ad assumere la direzione della Cattedra, di creare un gruppo di lavoro che svolga l’attività  di ricerca e di organizzazione che la realizzazione di ciascun corso comporta.
L’idea che ispira e sottende le attività del gruppo è che, sebbene lo studio dell’incidenza del diritto internazionale sul diritto interno degli Stati appartenga al novero degli approcci tradizionali alla ricerca nelle discipline giuridico-internazionali, da qualche tempo esso ha assunto nuova dimensione e importanza in relazione proprio al ruolo dei giudici nazionali nell’amministrare l’applicazione del diritto internazionale all’interno dei propri ordinamenti e all’esigenza di enfatizzare adeguatamente come il diritto internazionale possa e debba sempre più vivere anche nella e della sua applicazione all’interno degli Stati. E’ superfluo, mi pare, sottolineare poi quanto questo approccio sia proficuo per la formazione del giurista contemporaneo e come esso rappresenti una via aurea verso la presentazione adeguata agli studenti di giurisprudenza della evoluzione del diritto internazionale.

I casi presentati in questa raccolta sono stati scelti (in collaborazione con gli autori delle singole note di presentazione, che colgo qui l’occasione per ringraziare) avendo presente l’esigenza di dare una sintetica, ma, per quanto possibile, completa rappresentazione degli indirizzi assunti dalla giurisprudenza italiana nell’applicazione del diritto internazionale e del diritto dell’Unione europea, avendo presenti i vari parametri costituzionali operanti al riguardo. Così si spazia dalla teoria dei controlimiti, elaborata come si sa in relazione all’applicazione del diritto dell’Unione europea e dunque all’interno delle problematiche relative all’articolo 11 della Costituzione (capitolo che si deve a Elisabetta Mottese), alla giurisprudenza in tema di immunità degli Stati stranieri dalla giurisdizione italiana, intercettando dunque tematiche attinenti alla sfera dell’articolo 10, primo comma (ad opera di Giuliana Quattrocchi e Federica Gentile). La raccolta si conclude poi con l’esame della recente giurisprudenza in tema di applicazione in Italia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e dunque con l’analisi di problematiche relative all’articolo 117 della nostra Costituzione (di Elisabetta Mottese ed Eleonora Litrico).
L'auspicio rimane quello, già formulato in occasione delle precedenti edizioni, che questo volume possa contribuire alla diffusione in Italia della conoscenza del diritto internazionale, particolarmente tra coloro che sono dediti alle tradizionali professioni forensi.

martedì 17 dicembre 2013

In tutto il mondo la Giornata internazionale del migrante

di Rosario Sapienza
Domani, 18 dicembre, si celebra  in tutto il mondo la Giornata internazionale del migrante, voluta nel 2000 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per solennizzare il decimo anniversario dell’adozione della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie.

Ci sono oggi nel mondo  232 milioni di migranti internazionali, persone cioè che vivono in un Paese diverso da quello nel quale sono nati (e dunque non contando i migranti all’interno del loro Paese) pari al 3,2 % della popolazione mondiale, secondo un recente rapporto dell’UN DESA, il Dipartimento degli affari economici e sociali delle Nazioni Unite.

Secondo il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, essi devono essere sempre più visti come una risorsa per le società che li accolgono, dato che, egli ha affermato, “la migrazione è espressione dell’ambizione umana alla dignità, alla sicurezza e a un futuro migliore”. Per questo, seguendo le indicazioni del Dialogo ad alto livello sulle migrazioni internazionali e lo sviluppo, tenutosi nello scorso mese di ottobre a New York, egli ha proposto all’Assemblea Generale un’ambiziosa agenda in otto punti per valorizzare al meglio il contributo dei migranti.

Anche  il Consiglio d’Europa, che  ha istituito nel 2011 l’ufficio del Coordinatore delle Migrazioni, con il compito di gestire in maniera organica tutte le attività dell’organizzazione rilevanti per la protezione e l’integrazione dei migranti, ha varato un programma-quadro biennale sui temi delle migrazioni, con l’intento di affinare l’approccio dell’organizzazione a questi problemi, passando da un’attività principalmente tesa alla predisposizione di principi normativi alla promozione di una più effettiva ed efficace applicazione di quegli stessi principi e strumenti.

L’Italia, che peraltro affronta una migrazione sempre più di passaggio, di persone cioè che transitano dal nostro Paese per dirigersi altrove e che dunque è difficile qualificare come una emergenza nazionale, continua a fare collezione di brutte figure, di “malecumparse” come si dice dalle mie parti, come l’ultima, documentata a Lampedusa, dove pare che gli “ospiti” del Centro di prima accoglienza siano stati sottoposti a trattamenti anti scabbia nudi all’aperto e spruzzati con getti d’acqua trattata, suscitando anche una indignata nota del vescovo di Agrigento. Ma si puo?






sabato 14 dicembre 2013

In libreria Diritto Internazionale. Quattro Pezzi Facili



 di  Rosario Sapienza


Come si dice .... Scusate se da sol mi presento ..... E’ da qualche settimana in libreria l’ultimo mio libro, intitolato “Diritto Internazionale. Quattro Pezzi Facili”, pubblicato per i tipi della Giappichelli.  Esso raccoglie in quattro saggi (appunto i quattro pezzi facili) i primi risultati di un complesso e articolato itinerario di ricerca volto ad una accurata presentazione della ragion d’essere e dei principali contenuti del diritto internazionale pubblico. Il diritto internazionale pubblico come autonoma disciplina scientifica e come professione nasce nella seconda metà dell’ottocento. E’ in quel torno di tempo che si assiste a una vera e propria rivoluzione metodologica negli studi giuridici all’insegna del positivismo, soprattutto da parte della dottrina tedesca. Si cimentano in quest’opera grandi giuspositivisti, come Bluntschli, Heffter, Triepel, Heilborn. L’intento che animava questi studiosi era infatti quello di giungere a una ricostruzione del diritto internazionale coerente con i principi del giuspositivismo che si andavano affermando in quegli anni nello studio degli ordinamenti giuridici degli Stati.
Il mio libro prende le mosse proprio dalle loro ricerche, non tanto nell’intento di avviare una indagine storica, ma   di offrire piuttosto una prima indicazione di metodo nella ricostruzione delle vicende delle quali si tratta, e cioè quella di considerare la realtà delle relazioni giuridiche internazionali sia per come vengono viste e pensate dagli attori in esse impegnate sia per come appaiono allo sguardo  dell’osservatore che le ricostruisce. Questa doppia prospettiva, nella quale mi pare si sostanzi, opportunamente, una metodologia che voglia essere adeguata, offre, credo, una feconda occasione di approfondimento e di originale ricostruzione di quel singolare fenomeno giuridico che chiamiamo diritto internazionale pubblico.
Ricostruzione che deve poi, di necessità, contaminare gli strumenti della indagine giuspositivistica con quelli dell’approccio storico-critico, operazione da qualche tempo diventata usuale per gli studiosi della nostra disciplina tanto in Europa quanto Oltreoceano. Non si tratta, in altre parole, di scrivere una storia del diritto internazionale o di certi suoi istituti, impresa complessa anche se comunque commendevole, ma di ricostruire il portato odierno e positivo di un istituto alla luce della sua evoluzione storica, intento questo di una qualche utilità anche ai fini di una didattica non convenzionale.
Negli ultimi tempi ci si chiede addirittura se possa ancora parlarsi del diritto internazionale come un sistema normativo unico e coeso, o se invece si debba prender atto della sua irreversibile frammentazione. Se lo è chiesto la Commissione del diritto internazionale che ha istituito al suo interno un gruppo di lavoro che ha presentato nel 2006 sul tema Fragmentation of International Law: Difficulties arising from the Diversification and Expansion of International Law, il suo Rapporto finale contenente 42 conclusioni. Si è così per il momento terminata una lunga stagione di riflessione su queste tematiche, affidata anche a ponderosi studi.
Questo volume non comprende tutte le tematiche usualmente trattate in una presentazione sistematica del diritto internazionale pubblico.  Ho inteso, per il momento, soltanto ricostruire la vicenda attraverso la quale si è cercato di salvaguardare la costante validità dell’idea dell’unità del sistema giuridico internazionale agendo sulla nozione di soggetto giuridico internazionale, progressivamente riorganizzandola e rielaborandola al fine di mantenere  intatta per quanto possibile  l’unità del sistema giuridico internazionale, cercando poi di indagare la sua tenuta rispetto a due tematiche cruciali: la protezione dei diritti dell’uomo e la disciplina dell’uso della forza armata.


lunedì 9 dicembre 2013

Domani la Giornata Mondiale dei Diritti Umani

di Rosario Sapienza

Ricorre domani la Giornata Mondiale dei Diritti Umani che ha come tema la celebrazione del ventesimo anniversario dall'istituzione dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani  (http://www.un.org/en/events/humanrightsday/ ). La data è stata scelta per ricordare la proclamazione da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite della Dichiarazione universale dei diritti umani, il 10 dicembre 1948 con la risoluzione 217/III, un testo che a sessantacinque anni dalla sua approvazione mantiene intatta la sua forza morale, ma purtroppo anche le sue intrinseche debolezze.
La Giornata è uno degli eventi di punta nel calendario del quartier generale delle Nazioni Unite a New York ed è onorata con conferenze di alto profilo politico ed eventi culturali come mostre o concerti riguardanti l'argomento dei diritti umani. Inoltre, in questa giornata vengono tradizionalmente attribuiti i due più importanti riconoscimenti in materia, ovvero il Premio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, assegnato a New York, e il Premio Nobel per la pace ad Oslo. Quest'anno il Premio Nobel è stato assegnato all'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche.
In tutto il mondo, poi, molte altre organizzazioni, intergovernative e non governative, scelgono questa giornata per eventi significativi che celebrano i diritti umani e sottolineano l’urgenza della loro protezione.
Benché il testo della Dichiarazione sia arcinoto, può essere qui utile brevemente richiamarne la struttura. La Dichiarazione consta di 30 articoli che possono essere così ordinati: gli articoli 1-2 enunciano i diritti di tutti gli uomini alla libertà ed eguaglianza; gli articoli 3-11 contengono una riproposizione dei  diritti di libertà individuale, tra i quali all’art. 9 il cosiddetto habeas corpus; gli articoli 12-17 enunciano i diritti dell'individuo nella comunità in cui egli è inserito; gli articoli 18-21 riprendono il catalogo delle cosiddette "libertà borghesi", ossia la libertà di pensiero, coscienza e religione (art. 18), di opinione e di espressione (art. 19), di riunione e di associazione pacifica (art. 20), di partecipazione politica (art. 21); gli articoli 22-27 enunciano i diritti economici, sociali e culturali, e cioè il diritto alla sicurezza sociale (art. 22), al lavoro (art. 23), al riposo e allo svago (art. 24), a un tenore di vita adeguato (art. 25), all’istruzione (art. 26), alla cultura (art. 27); gli  articoli 28-30,  a mo’ di conclusione chiariscono le condizioni alle quali è possibile il godimento dei diritti precedentemente enunciati, in particolare sottolineando il diritto “a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati” (art. 28), richiamando i possibili fondamenti dei limiti al godimento dei diritti (art. 29), escludendo che la Dichiarazione possa essere utilizzata per raggiungere lo scopo di attentare al godimento dei diritti in essa enunciati (art. 30).
Nell’intenzione dei proponenti, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo doveva rappresentare a livello mondiale quello che nelle costituzioni degli Stati liberali era il cosiddetto Bill of Rights, ossia l’elenco dei fondamentali diritti della persona umana. L’idea della protezione dei diritti umani non era un’idea nuova. È noto infatti che le prime Dichiarazioni dei diritti dell’uomo risalgono al settecento ed esprimono la pressante urgenza di affermare l’esigenza di difesa della libertà del cittadino nei confronti di uno Stato tradizionalmente visto come avversario delle libertà.  Sono, dunque,  delle dichiarazioni “borghesi”, che ci consegnano un modello di Stato attento a non invadere gli spazi di libertà del singolo cittadino. Queste dichiarazioni le ritroviamo ancora, aggiornate e integrate, in molte costituzioni statali.  Rispetto ad esse, però, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo presentava alcune fondamentali differenze. Innanzitutto, per quel che riguardava la sua forza obbligatoria. Mentre le Dichiarazioni dei diritti che fanno parte delle Carte costituzionali degli Stati sono delle vere e proprie leggi, anzi hanno talvolta una forza superiore a quella della stessa legge, la Dichiarazione Universale, come molte altre Dichiarazioni delle organizzazioni internazionali, aveva il valore di una semplice raccomandazione indirizzata dall'Assemblea Generale agli Stati. In altri termini, pur avendo un alto valore morale, la Dichiarazione non imponeva agli Stati l’obbligo di proteggere i diritti in essa contenuti, ma semplicemente raccomandava loro di farlo. E risulta comunque dagli atti della commissione chiamata ad elaborarla che essa si propose espressamente di redigere un testo giuridicamente non vincolante.
  Ma c’era un altro elemento di debolezza della Dichiarazione e consisteva nel fatto che mentre le Dichiarazioni dei diritti adottate all'interno degli Stati esprimevano una concordanza su certi valori fondamentali, la Dichiarazione Universale rappresenta piuttosto il compromesso tra visioni della società non solo diverse fra di loro, ma addirittura antitetiche e contrapposte. E così, anche se la Dichiarazione enunciava certi diritti, era chiaro fin dall’inizio che questi diritti avrebbero significato cose diverse a seconda del Paese nel quale ad essi si dovesse dare tutela. Una cosa, per esempio, era parlare di libertà d’espressione negli Stati occidentali, un’altra negli Stati socialisti. E questo, diciamo così, equivoco di fondo, avrebbe segnato in maniera indelebile anche i successivi sviluppi in materia. Anche se deve precisarsi che in certa misura la difficoltà di fare emergere valori comuni dipende proprio dalla presenza tra gli Stati di differenti concezioni in materia e non da un atteggiamento di voluta sfiducia nella possibilità di dare un fondamento “forte”, ossia radicato nei valori, alla protezione internazionale dei diritti dell’uomo.  D’altra parte anche se è vero che il testo fu adottato all’unanimità (nel senso che non ebbe alcun voto contrario) è  pure vero che numerose furono le astensioni (tutti i Paesi dell’Europa dell’Est, l’Arabia Saudita, il Sudafrica) e che due Paesi non parteciparono al voto (Honduras e Yemen).
E ancor oggi, come a proposito del testo della Dichiarazione, la  presenza nel mondo di differenti visioni culturali sull’uomo e sul suo rapporto con la società e le istituzioni politiche rappresenta un problema per il sistema delle Nazioni Unite. Nonostante l’esistenza di numerosi trattati internazionali sui diritti dell’uomo, fatica ad emergere una visione uniforme sui diritti umani. E, in una certa misura, è anche giusto (oltre che inevitabile) che sia così, poiché nessun popolo può rinunciare alla sua identità e originalità che gli viene dalle sue tradizioni e dalla sua cultura.
Il testo che venne approvato nel 1948 parla di diritti uguali per tutti e in questo senso può venire descritto come una rielaborazione del portato giusnaturalistico in tema di diritti umani: ma come non notare che la stessa idea giusnaturalistica   di diritti uguali per tutti  è un’idea di marca occidentale?  
In fondo, lo stesso ideale internazionalista del pacifismo tardo ottocentesco, incarnatosi, anche se tardivamente, nelle organizzazioni internazionali universali, non riesce ad imporsi e non solo perché  all’interno di quelle organizzazioni i Paesi non occidentali hanno una posizione di sicuro predominio, quantomeno numerico. Ciò accade perchè l'estensione di quei valori si scontra con formidabili difficoltà legate alla diversità di fondo dei sostrati culturali che caratterizzano gli Stati nel mondo, mentre, invece, l'ideale pacifista e umanitario del tardo ottocento pretende di costruire una pace che riposi su una comune civiltà, sull’accettazione di valori comuni e di un comune sentire dei popoli della terra. Esso finisce quindi con il giudicare intollerabile il fatto che dietro la sovranità statale si celino valori e modi di incarnarli assai differenti e quindi con il non poter “accontentarsi” di un ordine semplicemente convenzionale.
In realtà, quel pacifismo nasceva da una visione del mondo come retto da valori e regole universali perchè fondati su un comune sostrato culturale universale, su una sorta di diritto naturale universale, kantianamente affermato in termini per la verità piuttosto apodittici e ingenui.
 Esiste invece uno scarto culturale tra l’Occidente e altre aree culturali, scarto che fa sì che il compito di costruire valori comuni che possano determinare una comune civiltà planetaria è assai arduo ed è, tutto sommato, ancora agli inizi. Non basta adottare strumenti internazionali in materia di diritti umani per far sì che i valori occidentali che di quegli strumenti sono il terreno di coltura si diffondano ipso facto a livello planetario. Ed è singolare, in verità, che un Occidente che ha prodotto gli studi di antropologia culturale non riesca a comprendere questo limite del suo ideale pangiuridico universale. Certo è che fino a quando non lo si comprenderà e non si opererà concretamente per un reale dialogo interculturale prima che internazionale, non si potrà dire di aver posto nemmeno la prima pietra all'edificazione di una comune civiltà giuridica a livello mondiale.
 Nonostante questa difficoltà, un elemento di novità maturato in questi anni è invece rappresentato dal crescere dell’interesse per la tematica della protezione dei diritti umani nella queste tematiche, all’interno dei singoli Stati. Nascono dunque istituzioni promosse dalla società civile, la cui creazione è anche raccomandata dalla risoluzione 48/134 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e che presentano l’indubbio vantaggio di affiancare all’azione governativa per il rispetto dei diritti dell’uomo, una azione della gente comune per la tutela dei diritti.
Ciò produce un primo risultato importantissimo: quello di sottrarre la materia dei diritti umani e della loro protezione all’esclusiva competenza dei governi facendo diventare questi temi oggetto di un dibattito culturale e politico. E così facendo si invera la dimensione autenticamente costituzionale di un testo come la Dichiarazione Universale, patrimonio dunque condiviso e ispiratore di prassi attuative anche differenziate, ma concorrenti, secondo diverse tradizioni, ma sottratte al calcolo politico degli apparati.
Così la dimensione internazionale e quella nazionale, la dimensione istituzionale e quella della società civile si integrano e si consolida quella coscienza sociale che fa della protezione dei diritti umani un obiettivo politico, in senso alto, e non di parte, sottraendolo alla logica della ragion di Stati, rispetto alla quale i diritti umani appaiono dunque una frontiera sempre ulteriore, uno strumento di dialettica e di critica, un continuo rimando ad un altrove, fondato sull’inalienabile diritto dell’uomo alla propria originalità di essere irriducibile a qualunque manipolazione.  

giovedì 24 ottobre 2013

A Caltagirone aperta la XXXI Cattedra Sturzo

di Rosario Sapienza


E' stata inaugurata ieri la XXXI edizione della Cattedra Sturzo, un originale think tank che con una peculiare formula raccoglie ogni anno giovani studiosi e maestri più maturi per riflettere insieme, nello spirito laico ma cristianamente ispirato che fu di Luigi Sturzo, su una questione politica di particolare attualità.

La sessione di quest'anno è dedicata al tema "Crisi europea: declino o rinnovamento?", nella convinzione che  quello che sta accadendo all’Unione europea in questi ultimi anni abbia poco a che vedere con la crisi economica mondiale e molto con la crisi di un progetto politico  probabilmente  riconducibile all'esigenza della leadership europea di consolidare un assetto sempre più efficiente e accentrato, anche a costo di ... perdere qualche pezzo per strada.

Intervenendo alla sessione di questa mattina dedicata a  "La soglia euro-mediterranea: lavori in corso", ho avuto modo di affermare tra l'altro 

"Giustamente quanto accaduto recentemente a Lampedusa è stato definito una tragedia europea.  Probabilmente si intendeva solamente sottolineare che l’Italia non doveva essere lasciata sola a fronteggiare il problema dell’assistenza ai migranti. Credo invece che quella di Lampedusa possa essere considerata una tragedia europea, perché l’Unione europea ne porta la diretta responsabilità a motivo della sua velleitaria, confusa e ondivaga politica mediterranea. I rapporti con il Mediterraneo hanno infatti sempre rivestito una grande importanza per l’Europa e soprattutto negli ultimi venti anni. Nel 1995 l’Unione Europea prese l’iniziativa di stabilire il Partenariato Euro-Mediterraneo e nel 2004 ha avviato la Politica Europea di Vicinato nella quale fece confluire la prima.  Il Partenariato è stato politicamente bruciato da varie  determinanti, specie dal progressivo deteriorarsi del conflitto israelo-palestinese. La Politica di Vicinato ha finito per frammentare l’idea di partenza di una sorta di comunità regionale in un fascio di  rapporti bilaterali. Nell’insieme, la drammatica fase aperta dall’intervento americano in Iraq e il basso profilo che l’Unione europea ha  mantenuto nei confronti di quegli eventi, mancandole la necessaria coesione politica, ha indebolito e screditato le politiche mediterranee dell’Unione europea. Né l’Unione per il Mediterraneo, con il suo imbarazzante portato di aspirazionismi e protagonismi velleitari, ne ha risollevato le sorti.


      E chi, se non noi qui in Sicilia, deve avviare una nuova riflessione, a partire dal riconoscimento dell’esistenza di quel nesso sottile ma solido che ci lega in una comunanza di destini ai popoli dell’Africa del Nord, oggi ancora alla ricerca di una nuova stagione di diritti e di prosperità? Nesso che ha una sua dimensione ineludibile, proprio con specifico riferimento ai Paesi che si affacciano sul Canale di Sicilia (Libia e  Tunisia, soprattutto) e alle specificità socio-economiche e culturali che caratterizzano quest’area, che rimane di prioritario riferimento per noi. Prova ne sia il fatto che quasi esclusivamente da queste zone si originano i flussi migratori che finiscono sul nostro territorio. O ancora, potremmo ricordare, la singolare forma di integrazione siculo-tunisina che interessa la marineria attiva nell’area della Sicilia occidentale. Ma potremmo pure parlare della costante emarginazione economica e culturale che da decenni si riserva alla Sicilia e che in forme sempre nuove si rinnova. Dunque, nell’interrogarci sulla dimensione della dignità e dei diritti o sugli squilibri economici delle sponde del Mediterraneo, così come sugli inarrestabili movimenti di popolazione, parleremo non solo degli “altri”, ma anche di noi stessi, di un futuro che il comune passato può contribuire a disegnare diverso da come sembrano imporcelo le logiche di una integrazione europea sorda e cieca di fronte a queste urgenze".




mercoledì 11 settembre 2013

A sessant'anni dall'entrata in vigore della Convenzione europea dei diritti dell'uomo

Lo scorso 3 settembre ricorreva il sessantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre del 1950. Per l’Italia invece entrò in vigore con il deposito dello strumento di ratifica il 10 ottobre 1955. La Convenzione è stata nel tempo modificata e aggiornata con l'approvazione di protocolli addizionali (siamo arrivati al sedicesimo) e viene universalmente riconosciuta come un ragguardevole risultato nel campo della protezione internazionale dei diritti umani. Essa ha visto crescere sensibilmente il numero degli Stati parti rispetto agli originali stipulanti, molti dei quali sono Stati che sono da poco usciti da sistemi economici marxisti e dunque dirigisti e stanno ancora affrontando un difficile periodo di riforme. Essa vive dunque un non facile periodo di assestamento ed è alla costante ricerca di un assetto che le assicuri sempre maggiore efficacia. E, per vero, essa, nata in seno al Consiglio d'Europa sulla stessa spinta ideale che aveva portato alla Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo, ha certamente permesso di cogliere significativi risultati, soprattutto se paragonata al livello di "produttività" degli altri strumenti internazionali in materia, certamente molto minore. Orbene, non c'è dubbio che la Convenzione debba il suo successo a molteplici fattori. Tra questi può ricordarsi, in primo luogo, la circostanza che essa annovera tra le sue parti Stati accomunati da un elevato livello di civiltà, caratterizzato, in particolare, proprio da previsioni costituzionali di garanzia di quegli stessi diritti che la Convenzione protegge. Ma è altrettanto certo che la Convenzione deve il suo successo anche e soprattutto alla circostanza di possedere, accanto a un "tradizionale" meccanismo di controllo dell'adempimento basato su rapporti presentati dagli Stati parti, un più innovativo sistema di ricorsi, tanto statali quanto individuali, davanti ad organi internazionali che assicura un più efficiente ed efficace controllo dell'adempimento e che rappresenta l'aspetto senz'altro più innovativo e interessante del sistema della Convenzione. In questi sessant’anni, oltre 500,000 ricorsi sono stati trattati dagli organi del sistema di Strasburgo e la Corte ha reso circa 16.500 sentenze. Originariamente, come si sa, il procedimento di trattazione dei ricorsi si articolava in due fasi, la prima delle quali, preliminare alla seconda, si svolgeva davanti alla Commissione europea dei diritti dell'uomo. Essa poteva essere adita dagli Stati parti ovvero, fatto questo non usuale nel diritto internazionale, ma ormai sempre più frequente, da individui. Se il ricorso veniva considerato ammissibile, la Commissione procedeva all'esame del merito della questione concludendolo con l'adozione di un rapporto. Assai notevole era, conviene ribadirlo, il fatto che l'individuo ricorrente avesse, nella fase della procedura davanti alla Commissione, un vero e proprio "locus standi". L'adozione del rapporto da parte della Commissione segnava la cerniera tra la prima e la seconda fase del procedimento di controllo, consistente, quest'ultima, o nell'esame del ricorso da parte del Comitato dei Ministri, ovvero nell'adizione della Corte europea dei diritti dell'uomo, se lo Stato "convenuto" ne avesse accettato la competenza. Davanti alla Corte, a differenza di quanto abbiamo visto verificarsi davanti alla Commissione, l'individuo non aveva invece legittimazione processuale. La trattazione del ricorso davanti alla Corte si concludeva poi con una vera e propria sentenza definitiva. Il 1° novembre 1998 è invece diventato pienamente operativo l'undicesimo protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, aperto alla firma l’11 maggio del 1994. In pratica, il protocollo ha stabilito che alla procedura basata essenzialmente sull'operato della Commissione europea dei diritti dell'uomo e della Corte europea dei diritti dell'uomo (con un ruolo eventuale del Comitato dei Ministri), se ne sostituisse una che vede operare solamente la Corte, attraverso le sue Camere e Grandi Camere.

venerdì 6 settembre 2013

Rifugiati e Unione europea. Verso Dublino III

di Rosario Sapienza


Nello scorso mese di agosto si è intensificata la frequenza degli sbarchi di migranti, molti dei quali provenienti da Paesi nei quali sono in corso violenti scontri armati, come ad esempio la Siria. Ciò ha suscitato comprensibile apprensione e uno spontaneo moto di solidarietà che è valso ai siciliani il plauso del Presidente della Repubblica e di esponenti autorevoli delle istituzioni internazionali.

L’elevato numero dei migranti ha, però, generato situazioni di reale disagio tra gli stessi extracomunitari, dovute alle oggettive difficoltà di fornire un primo soccorso e una adeguata sistemazione a tutti.  La complessità e a tratti l’incertezza del quadro normativo internazionale, europeo e interno in materia non aiuta poi a semplificare le questioni. Può dunque essere utile far chiarezza.

Nel diritto internazionale, una fondamentale distinzione passa tra chi ha titolo al riconoscimento dello status di rifugiato e chi non può aspirare a tale protezione.

Seppure è vero, infatti,  che severe condizioni di povertà o calamità naturali  possono costringere le persone a lasciare il proprio Paese cercando altrove …  “rifugio” ciò non fa di costoro degli aventi diritto al titolo di “rifugiati” ai sensi del diritto internazionale.

 La condizione di rifugiato ai sensi della Convenzione del 1951 può essere infatti riconosciuta solo a chi  è costretto a lasciare  il proprio Stato per il fondato timore di subire una persecuzione per uno dei motivi tassativamente elencati, che sono stati nel tempo anche interpretati estensivamente in modo da tutelare, ad esempio, donne perseguitate perché avevano rifiutato di sottoporsi a mutilazioni genitali o persone a rischio di condanne penali a causa del proprio orientamento sessuale. Ed anche se l’Italia deriva  l’obbligo dell’accoglienza ai richiedenti asilo dalla propria Costituzione che all’ art. 10, 3° comma,  enuncia  una nozione più ampia rispetto a quella della Convenzione, la nozione internazionale rimane condizionante, anche perché lo status di rifugiato deve essere concesso con adeguata circospezione e attento esame vista la sua validità internazionale.  Peraltro, e non da ora, si sono affiancate  alla nozione di rifugiato altre categorie che mirano a riconoscere adeguata tutela alle varie situazioni.

A tal proposito va ricordato che l’Unione europea ha un proprio sistema di asilo, basato su un’ampia nozione di protezione internazionale,  che rende possibile riconoscere sia lo status di rifugiato sia altre forme di tutela, quali la protezione sussidiaria o la protezione temporanea, nel tentativo di predisporre uno schema  adatto a qualunque situazione.

Tale sistema è stato recentemente modificato. Nello scorso mese di giugno, infatti, è stato adottato, insieme ad altri atti,  il nuovo Regolamento Dublino, il cosiddetto Regolamento Dublino III (Regolamento UE n° 604/2013) che  entrerà in vigore a partire dal 2014, sostituendo il  Regolamento (CE) 343/2003, detto Dublino II, e modificandone in parte il disposto, soprattutto per quel che riguarda  la determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale e le modalità e tempistiche per la determinazione.

Il sistema europeo persegue infatti il duplice obiettivo di evitare,  da una parte, che nessuno Stato si dichiari competente all’esame della domanda di protezione internazionale, privando così il rifugiato del diritto di accedere al riconoscimento dello status, e dall’altra di impedire che i richiedenti asilo o protezione si spostino all’interno dell’Unione, alla ricerca di una destinazione preferita.

Il nuovo regolamento affina un già articolato schema che porta a identificare, a seconda delle varie categorie di richiedenti, lo Stato competente ad esaminare la domanda di protezione (la cosiddetta presa in carico) cercando, per quanto possibile, di assicurare una adeguata tempistica e prassi amministrative uniformi. Sotto l’impero della vecchia normativa si erano registrati infatti numerosi casi di disparità di trattamento da Stato a Stato.

Va però riconosciuto che questa pur auspicabile evoluzione normativa rappresenterà, specie nel momento della sua prima applicazione, un’ulteriore difficoltà.  Sarebbe illusorio infatti pensare che il nuovo sistema possa funzionare in tempi brevi, anche dopo la data prevista per la sua applicazione.  Ci vorrà tempo e tanta buona volontà.
  
Questo articolo è stato pubblicato su La Sicilia di oggi con il titolo "Lo status di rifugiato non è un diritto di tutti" 






giovedì 22 agosto 2013

Trecento anni fa l'idea dell'Unione europea nel Progetto per la Pace perpetua dell'Abbé de Saint-Pierre

di Rosario Sapienza

Può sembrare strano, ma l’idea dell’Unione europea non è poi così nuova. Essa è nata invece  almeno trecento anni fa. Nel 1713, infatti, anno della conclusione della pace di Utrecht, vedeva la luce  l’ennesimo progetto per la pace perpetua, quello, in verità imponente, redatto dall'Abate di Saint-Pierre e intitolato proprio “Progetto per la pace perpetua in Europa” e teso alla costituzione di una Unione europea fra gli Stati del tempo.

Ce n’erano già stati altri di questi progetti: nel seicento, quello di un cattolico sostanzialmente soddisfatto dell'ordine costituito, come Emeric Crucé o quello dell’ ugonotto duca di Sully o ancora quello del  quacchero pacifista e illuminato, come William Penn, il fondatore dello Stato americano della Pennsylvania. Ed altri ce ne sarebbero stati, dopo quello dell'abate di Saint-Pierre, uno redatto dal filosofo utilitarista inglese, Bentham, e quello, ancor oggi celeberrimo, di  Immanuel Kant.  Anche il fondatore del socialismo europeo, Saint-Simon, si sarebbe poi cimentato con questo genere letterario.

Ma il progetto dell’Abate di Saint Pierre è rimasto una pietra miliare nella storia del genere, forse anche per l’attenzione che ad esso dedicò Jean Jacques Rousseau che ne redasse una sintesi e formulò anche un “Giudizio critico”, rimasto giustamente famoso. Per anni i sostenitori dell’esigenza di una organizzazione internazionale vennero identificati dai loro critici come i seguaci del “buon Abate di Saint-Pierre”, segno che all’Abate si faceva credito di aver elaborato un modello di riferimento quanto alle idee di pacificazione universale.

  Idee che sono sostanzialmente le stesse esposte da Emeric Crucé nel suo Nuovo Cinea, anche se non ci sono prove che egli abbia effettivamente conosciuto l'opera di Crucé. Conobbe sicuramente, invece, gli scritti di Sully, tant'é che anche lui presenta il suo progetto come un aggiornamento di quello del re Enrico IV. Ma l'impostazione di fondo rimane quella di Crucé.  Anche l'Abate di Saint-Pierre, infatti, credeva necessario per la pacificazione dell'Europa che si desse vita a una struttura che fosse come uno Stato di Stati, ma a differenza di Crucé, cerca di approfondire anche le modalità per realizzare concretamente questo Stato europeo, che egli battezza, pensate un  po’, Unione Europea.

  Nella originaria stesura in due volumi, il Progetto per rendere la pace perpetua in Europa si compone di sette discorsi, e comprende ventisette articoli. Articoli che, secondo Saint-Pierre avrebbero dovuto dar vita a un vero e proprio trattato internazionale  che sarebbe stato firmato e ratificato dai sovrani europei per costituire l'Unione europea. Dodici di questi articoli sono definiti dallo stesso Abate di Saint-Pierre come articoli fondamentali. Ciò vuol dire, secondo lui, che non sarà possibile modificarli se non con il consenso unanime dei membri dell'Unione Europea. Seguono poi otto articoli importanti e otto articoli utili.

  I dodici articoli fondamentali contengono, per dir così, le fondamenta della costruzione della futura Unione Europea. In essi viene chiarito che i sovrani si impegnano a non farsi la guerra l'un l'altro, a sostenersi contro i sediziosi e i rivoltosi, a rispettare le decisioni dell'Unione europea. Tra queste decisioni particolare rilievo assume quella con la quale l'Unione europea dichiara guerra allo Stato che non voglia rispettare il trattato o successive decisioni degli organi dell'Unione. A somiglianza di quanto aveva previsto Crucé, insomma, l'Unione europea non bandisce la guerra del tutto, ma ne accentra, per dir così, la conduzione. Gli Stati membri dell'Unione condurranno la guerra, ma solo su richiesta dell'Unione contro gli Stati dichiarati nemici dell'Unione stessa.

  L'Unione europea sarebbe stata retta da un Senato d'Europa, composto di ventiquattro rappresentanti, uno per ognuno degli Stati che secondo Saint-Pierre avrebbero dovuto comporre l'Unione. Il Senato avrebbe deliberato a seconda dei casi e dell'importanza delle decisioni da adottare, a maggioranza semplice, a maggioranza dei tre quarti dei suoi componenti o, addirittura, all'unanimità (per esempio quando si fosse trattato di modificare qualcuno dei dodici articoli fondamentali).

  Sempre tra i dodici articoli fondamentali figurano quelli relativi alla promozione e al mantenimento di libere relazioni commerciali. E' interessante notare come l'articolo 7 preveda che i delegati degli Stati membri dell'Unione europea avrebbero intavolato negoziati al fine di redigere dei codici di norme sul commercio uguali per tutti i Paesi membri. Soluzione  questa che rappresenta ancor oggi una delle strade seguite per giungere a semplificare lo svolgimento del commercio internazionale.

  Gli articoli importanti contengono disposizioni relative al buon funzionamento dell'Unione europea. Il primo fissa la sede dell'Unione a Utrecht che per Saint-Pierre rappresentava la città della pace per eccellenza.
  Gli altri articoli importanti prevedono elaborati meccanismi di controllo volti ad assicurare che i sovrani d'Europa rispettino le disposizioni del trattato. Per esempio, Saint-Pierre avrebbe voluto non solamente che il Senato inviasse propri ambasciatori presso ognuno degli Stati membri, ma anche che avesse propri rappresentanti permanenti, che egli chiama residenti, presso ogni provincia di almeno due milioni di abitanti.
  Se qualche sovrano si fosse ribellato ai deliberati dell'Unione, gli altri si sarebbero uniti contro di lui in una guerra che avrebbe avuto la benedizione dell'Unione e che sarebbe stato il mezzo principale per il ristabilimento del diritto violato.

  Negli articoli utili sono regolate, invece, questioni di procedura e comunque secondarie.

  Che dire di quest'ennesimo sforzo verso la pace perpetua? Che si tratta dell'ennesimo sforzo di fantasia che dà per scontata l'unica cosa che scontata non é, ossia la buona volontà dei sovrani di dar vita all'Unione europea. Ciononostante, il Progetto dell'Abate di Saint-Pierre rimane un'opera fondamentale, anche perché l'autore si diede molto da fare per divulgarla, ed essa é quindi rimasta un punto di riferimento importante per tutti coloro che hanno successivamente dedicato una qualche attenzione al tema.

 Certo le opinioni dei posteri sono state varie e variamente atteggiate. Secondo Rousseau si trattava di "un libro solido e meditato". Mentre per Voltaire quel progetto di pace perpetua era invece soltanto "una chimera che non potrebbe esistere tra i Principi più che tra elefanti e rinoceronti o tra lupi e cani". Forse il giudizio più sereno é quello che diede allo stesso autore il vescovo di Fréjus, poi divenuto il cardinal Fleury: "Avete dimenticato un articolo essenziale. Quello di inviare dei missionari per toccare il cuore dei principi e persuaderli a condividere le vostre idee".


giovedì 9 maggio 2013

Il 9 maggio è la festa dell'Europa

E' difficile oggi celebrare la festa dell'Europa, difficile pensare che si possa guardare con fiducia al futuro dell'Europa, celebrando il suo passato. Noi vogliamo farlo nel ricordo di quel 9 maggio 1950, quando nella Sala dell'Orologio del Quai d'Orsay, Robert Schuman tenne il suo discorso nel quale affermava la necessità di una costruzione per gradi dell'Europa unita. Eccone il testo in traduzione italiana

"La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano.

Il contributo che un'Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent'anni antesignana di un'Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L'Europa non è stata fatta : abbiamo avuto la guerra.

L'Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L'unione delle nazioni esige l'eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l'azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania.
A tal fine, il governo francese propone di concentrare immediatamente l'azione su un punto limitato ma decisivo.

Il governo francese propone di mettere l'insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un'organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei. 

La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime.

La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile. La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica.

Questa produzione sarà offerta al mondo intero senza distinzione né esclusione per contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace. Se potrà contare su un rafforzamento dei mezzi, l'Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano. Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all'instaurazione di una comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni.

Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace. 
Per giungere alla realizzazione degli obiettivi così definiti, il governo francese è pronto ad iniziare dei negoziati sulle basi seguenti.

Il compito affidato alla comune Alta Autorità sarà di assicurare entro i termini più brevi: l'ammodernamento della produzione e il miglioramento della sua qualità: la fornitura, a condizioni uguali, del carbone e dell'acciaio sul mercato francese e sul mercato tedesco nonché su quelli dei paese aderenti: lo sviluppo dell'esportazione comune verso gli altri paesi; l'innalzamento delle condizioni di vita della manodopera di queste industrie.

Per conseguire tali obiettivi, partendo dalle condizioni molto dissimili in cui attualmente si trovano le produzioni dei paesi aderenti, occorrerà mettere in vigore, a titolo transitorio, alcune disposizioni che comportano l'applicazione di un piano di produzione e di investimento, l'istituzione di meccanismi di perequazione dei prezzi e la creazione di un fondo di riconversione che faciliti la razionalizzazione della produzione. La circolazione del carbone e dell'acciaio tra i paesi aderenti sarà immediatamente esentata da qualsiasi dazio doganale e non potrà essere colpita da tariffe di trasporto differenziali. Ne risulteranno gradualmente le condizioni che assicureranno automaticamente la ripartizione più razionale della produzione al più alto livello di produttività.

Contrariamente ad un cartello internazionale, che tende alla ripartizione e allo sfruttamento dei mercati nazionali mediante pratiche restrittive e il mantenimento di profitti elevati, l'organizzazione progettata assicurerà la fusione dei mercati e l'espansione della produzione.

I principi e gli impegni essenziali sopra definiti saranno oggetto di un trattato firmato tra gli stati e sottoposto alla ratifica dei parlamenti. I negoziati indispensabili per precisare le misure d'applicazione si svolgeranno con l'assistenza di un arbitro designato di comune accordo : costui sarà incaricato di verificare che gli accordi siano conformi ai principi e, in caso di contrasto irriducibile, fisserà la soluzione che sarà adottata.

L'Alta Autorità comune, incaricata del funzionamento dell'intero regime, sarà composta di personalità indipendenti designate su base paritaria dai governi; un presidente sarà scelto di comune accordo dai governi; le sue decisioni saranno esecutive in Francia, Germania e negli altri paesi aderenti. Disposizioni appropriate assicureranno i necessari mezzi di ricorso contro le decisioni dell'Alta Autorità.
Un rappresentante delle Nazioni Unite presso detta autorità sarà incaricato di preparare due volte l'anno una relazione pubblica per l'ONU, nelle quale renderà conto del funzionamento del nuovo organismo, in particolare per quanto riguarda la salvaguardia dei suoi fini pacifici.

L'istituzione dell'Alta Autorità non pregiudica in nulla il regime di proprietà delle imprese. Nell'esercizio del suo compito, l'Alta Autorità comune terrà conto dei poteri conferiti all'autorità internazionale della Ruhr e degli obblighi di qualsiasi natura imposti alla Germania, finché tali obblighi sussisteranno".

sabato 2 febbraio 2013

Alle origini del diritto internazionale. 140 anni fa la fondazione dell' Institut de Droit International


       di Rosario Sapienza

       Centoquarant’anni fa, nel 1873 a Ghent venne costituita una associazione la cui fondazione può esser fatta coincidere con la nascita del diritto internazionale contemporaneo: l’Institut de Droit International.  Erano presenti con la qualità di soci fondatori alcuni illustri giuristi dell’epoca: Asser, Besobrasov, Bluntschli, Calvo, Field, de Laveleye, Lorimer, Mancini, Moynier, Pierantoni e Rolin-Jaequemyns. Lo scopo di questo Istituto, che ha mantenuto negli anni la struttura di un’accademia scientifica ad altissimo livello e a composizione selezionatissima, era quello di promuovere lo studio e la codificazione del diritto internazionale.
Ancora oggi l’Institut ha mantenuto questa fisionomia e ancor oggi opera con le medesime modalità definite nel suo statuto. Ne fanno parte soltanto 132 membri, fra titolari e associati. Si diviene membro dell’Institut soltanto per cooptazione da parte dei soci. Ogni due anni si tiene in una città diversa una sessione di lavoro, nel corso della quale i consoci ascoltano e discutono delle relazioni presentate da membri dell’Institut che hanno assunto l’impegno di approfondire un determinato argomento.
L’Institut è come abbiamo detto una associazione tra privati, che deve il suo indiscusso prestigio esclusivamente alla stima di cui godono i suoi componenti e all’elevato livello scientifico dei suoi lavori. Ciò ha fatto sì che più volte i suoi studi abbiano influenzato gli sviluppi del diritto internazionale. Ad esempio, nel 1880, al termine di un articolato itinerario di studio e ricerca, l’Institut pubblicò il cosiddetto Manuale di Oxford sulle norme di diritto internazionale applicabili alla guerra terrestre che influenzò grandemente le Conferenze dell’Aja del 1899 e 1907. Nel 1885, la Conferenza di Berlino sull’Africa Occidentale fece proprio l’appello per la libertà di navigazione nel bacino del Congo che era stato avanzato dall’Institut nel 1883. Nel 1888 una Convenzione delineò per il canale di Suez un regime giuridico largamente ispirato ai principi contenuti nella risoluzione adottata dall’Institut nel 1879.
Inoltre, è doveroso sottolineare che l’Institut ha influenzato gli sviluppi del diritto internazionale anche ad un altro livello. Senza dubbio, infatti, sono ispirati a quelli dell’Institut i metodi di lavoro della Commissione di diritto internazionale, organo di consulenza dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite per la codificazione del diritto internazionale.   E nel 1914 venne istituita a L’Aja la prestigiosa Accademia di Diritto Internazionale, un centro di ricerca e insegnamento ad alto livello fortemente voluto dall’Institut. 

Sempre nel 1873, a Bruxelles, venne fondata l’International Law Association, con l’originaria denominazione di Association for the Reform and Codification of the Law of Nations (mutato poi in quello attuale nel 1895). Alla base della costituzione dell’associazione sta l’idea di un gruppo di giuristi e pacifisti statunitensi (tra di essi ricordiamo Burritt, Miles e Field) che occorresse dar vita ad un’associazione che si incaricasse di redigere un codice di diritto internazionale come strumento per assicurare ai popoli una pace duratura.
A differenza dell’Institut de Droit International, l’International Law Association ha decisamente puntato su una politica di apertura che l’ha portata ad avere oltre cinquanta sezioni nazionali, senza un numero prefissato di membri. I suoi scopi sono ancor oggi quelli fissati dallo statuto originario e cioè: lo studio, l’approfondimento e il progresso del diritto internazionale, pubblico e privato, lo studio del diritto comparato, la redazione di proposte per la soluzione dei conflitti di leggi e l’unificazione del diritto e la promozione della comprensione internazionale.
Ancor oggi l’Associazione si riunisce in conferenze internazionali a cadenza biennale, mentre il lavoro scientifico dell’Associazione viene portato avanti da comitati tematici sotto la supervisione di un direttore. I comitati sono nominati dal Consiglio Esecutivo dell’Associazione, sentito il direttore.
L’Associazione studia, come ricordavamo,  tematiche di diritto internazionale sia pubblico che privato, con un particolare interesse alle questioni di diritto privato, specie del commercio internazionale.

 Nel 1914 a L’Aja venne fondata l’Accademia di diritto internazionale, istituzione scientifica e di alta formazione nel campo del diritto internazionale, il cui statuto venne, come abbiamo detto, elaborato con il concorso dell’Institut de Droit International.
L’idea di un centro di formazione per il diritto internazionale risale già alle proposte del giurista tedesco von Bar, fatte proprie dalla Conferenza per la pace del 1907. L’Accademia è concretamente nata dalla collaborazione fra l’Institut de droit International e la divisione per il diritto internazionale della Fondazione Carnegie per la pace internazionale, il cui direttore, James Brown Scott, fu particolarmente attivo per la sua creazione.
L’Accademia venne formalmente costituita nel 1914, ma lo scoppio della Prima Guerra Mondiale costrinse a rinviare l’inizio dei lavori al 1923, anno in cui avvenne ufficialmente l’inaugurazione dei corsi. Da allora, migliaia di studiosi, provenienti da tutte le parti del mondo, hanno frequentato le aule del Palazzo della Pace a L’Aja (sede della Corte Internazionale di Giustizia) per i corsi che si tengono ogni anno d’estate. Le lezioni vengono tenute in inglese o francese ed in  sessioni separate per il diritto internazionale pubblico e il diritto internazionale privato, organizzate secondo il medesimo schema: ad un corso generale che tratta le principali tematiche della materia in modo sistematico  vengono affiancati corsi tematici di approfondimento. L’Accademia ha poi avviato un Centro di Ricerca che tiene sessioni annuali, nel corso delle quali giovani studiosi affrontano, sotto la guida di un direttore, delle ricerche su una data tematica.       
I corsi tenuti all’Accademia vengono pubblicati nella prestigiosa Recueil des Cours de l’Académie de Droit International de La Haye, che conta ormai numerosi  volumi. Esiste anche una associazione di exalunni dell’Accademia, la AAA (Association des Anciens Auditeurs) che svolge anch’essa un intenso programma di formazione e favorisce il mantenimento di contatti tra studiosi di diritto internazionale di tutte le parti del mondo.
Il diritto internazionale era dunque nato e si affermava come disciplina giuridica autonoma dalle altre, coltivata da un ceto professionale qualificato ed orgoglioso della propria metodologia.

Occorreva però affermare questa autonomia risolvendo alcuni importanti problemi teorici, primo fra tutti quello del fondamento della disciplina. Su cosa basava il diritto internazionale questa pretesa all’autonomia e in ultima analisi quale ne era il fondamento, da dove traeva la forza che lo portasse ad imporsi agli Stati, se non c’era (e  non c’è) una sorta di super-Stato che ne imponesse il rispetto?
Fino al settecento, era abbastanza comune spiegare il fenomeno dell’obbligatorietà del diritto internazionale riconducendolo alla forza vincolante del diritto naturale, un diritto che esiste e obbliga in quanto inerente alla natura umana, o meglio alla  natura razionale della persona umana.
Una delle prime trattazioni organiche del diritto internazionale si deve all’olandese Hugues de Groot che pubblicò nel 1625 il suo “De jure belli ac pacis libri tres”. Si tratta del primo scritto che si occupa del diritto internazionale come disciplina giuridica. In passato non erano mancate opere che avevano trattato questioni di rilievo internazionalistico, ma all’interno di una prospettiva teologica, come nel cinquecento  le opere degli scrittori di lingua spagnola De Vitoria e Suarez. Dopo l’opera di Grozio, fino ai primi anni dell’ottocento si registrano scritti di impianto giusnaturalistico, i più importanti dei quali sono le opere di Vattel e di Wolff.
Nell’ottocento, conformemente all’indirizzo che si afferma prevalente in seguito alle prime grandi codificazioni, anche il diritto internazionale viene ripensato su premesse positivistiche, fondando la sua vincolatività sulla volontà comune degli Stati. Così come il diritto all’interno dei singoli Stati veniva pensato come fondato sulla volontà positiva dello Stato che lo poneva, così il diritto internazionale riposava sulla volontà comune degli Stati che lo ponevano e lo rispettavano, spesso spontaneamente.
 Solo nella seconda metà dell’ottocento si assiste a una vera e propria rivoluzione metodologica all’insegna del positivismo soprattutto da parte della dottrina tedesca. Si cimentano in quest’opera grandi giuspositivisti, come Bluntschli, Heffter, Triepel, Heilborn. L’intento che animava questi studiosi era invece quello di giungere a una ricostruzione del diritto internazionale coerente con i principi del giuspositivismo che si andavano affermando in quegli anni nello studio degli ordinamenti giuridici degli Stati.
Ciò naturalmente li indusse a occuparsi di problemi di non facile soluzione, come ad esempio la teoria delle fonti o la ricerca del fondamento stesso dell’obbligatorietà del diritto internazionale, giungendo a conclusioni non sempre condivisibili. Si afferma dunque un gruppo di giuristi che condivide un obiettivo metodologico fondamentale: riscattare la scienza del diritto internazionale dalle indagini fino a quel momento condotte le quali o si erano ispirate all’applicazione di principi del diritto naturale ai rapporti fra gli Stati oppure si erano concentrate sulla osservazione e registrazione della prassi degli Stati. Resta il fatto, però, che l’impostazione da loro data a molti di questi problemi e anche alcune delle soluzioni da loro raggiunte rimangono anche oggi attuali. Per cui si può dire tranquillamente che il diritto internazionale come oggi lo conosciamo e studiamo come disciplina scientifica di diritto positivo risale alla loro impostazione.

Oggi, un oggi che comincia già con la fondazione dell’Institut, assistiamo all’affermarsi di una sorta di neogiusnaturalismo, secondo il quale esistono valori comuni a tutti gli Stati, o sui quali é comunque possibile mettersi d’accordo per fondare una convivenza pacifica.
Idea questa che si ricollega ad un’altra corrente di pensiero che pure matura nell’Ottocento e che annovera tra i suoi adepti studiosi del calibro di Mancini, Anzilotti, Rolin-Jaequemyns, Westlake, Lieber, Asser, forse meno legati alla logica del positivismo giuridico ma animati da grande spirito di intraprendenza.  Essi danno vita a grandi iniziative che fanno dello studio del  diritto internazionale una cosa del tutto nuova rispetto al passato. Nel 1869 viene fondata la Revue de droit international et de législation comparée, il primo tentativo di rivista scientifica internazionale ad occuparsi di diritto internazionale. Nel 1873, come dicevamo,  viene fondato l’Institut de Droit International, una associazione internazionale di giuristi che si impegna nello studio e nella codificazione del diritto internazionale.
Il che dipende anche dal fatto che è proprio nella seconda metà dell’ottocento che maturano alcuni sviluppi di fondamentale importanza per l’evoluzione del diritto internazionale, come, ad esempio la convocazione nel 1899 all’Aja della Prima Conferenza Internazionale della Pace, cui ne seguirà una seconda nel 1907. Anche se non riusciranno a scongiurare la guerra che scoppierà di lì a poco  nel 1914 e di nuovo nel 1945, queste conferenze hanno posto le basi di un nuovo diritto internazionale basato sul ripudio della violenza e la ricerca di soluzioni pacifiche alle controversie fra gli Stati.
Conviene segnalare anche che questi studi presentano una caratteristica in comune con gli sviluppi successivi del diritto internazionale, e cioè il loro carattere in certo qual modo ideologico. Gli studiosi del diritto internazionale cui ci siamo rifatti (a differenza di altri loro contemporanei come, ad esempio, Austin e Kaufmann) non rinunciano a perseguire un loro obiettivo, che è quello dell’edificazione della pace attraverso l’affinamento degli strumenti del diritto internazionale.
Ancora oggi questo intento è condiviso dalla maggior parte degli studiosi del diritto internazionale che si pensano come una comunità militante, un insieme di uomini che si dedicano non solamente a studiare le regole del diritto internazionale, ma a forgiarne ed elaborarne di sempre nuove con il solo obiettivo di costruire fra gli Stati una pace stabile e duratura.

mercoledì 23 gennaio 2013

I due marò italiani in India. Diritto internazionale e politica di potenza


di Rosario Sapienza

La Corte Suprema dello Stato indiano del  Kerala ha reso qualche giorno fa (lo scorso 18 gennaio) una singolare decisione in merito alla vicenda dei due marò italiani, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, che, come si sa, erano imbarcati sulla petroliera Enrica Lexie in servizio di contrasto anti-pirateria e sono accusati di aver ucciso due pescatori indiani scambiandoli appunto per pirati. Per questo motivo sono trattenuti in India dalla metà di febbraio del 2012, anche se hanno potuto beneficiare di una sorta di “licenza” per trascorrere le festività in famiglia. Al loro ritorno in India è intervenuta la decisione  nella quale la Corte del Kerala ha riconosciuto che i fatti di cui è questione non si sono svolti in acque territoriali indiane, ma ha tuttavia ritenuto che del caso debba occuparsi un tribunale federale indiano che dovrà dunque prima risolvere la questione della giurisdizione e, se riconoscerà sussistente la giurisdizione indiana, decidere poi nel merito.

La decisione è stata accolta in Italia con generale sollievo, dato che restituisce la questione alla dimensione politico-diplomatica più propria e adeguata (quella del dialogo tra la diplomazia italiana e il governo federale di New Dehli, mai venuto meno per la verità), ma anche con non poche perplessità (Marina Castellaneta ha parlato, su Il Sole 24 Ore di sabato 19 gennaio, di un vero e proprio “enigma”), dato che, riconoscendo che il fatto è avvenuto fuori delle acque territoriali indiane, si nega necessariamente la giurisdizione indiana che cede a fronte di quella dello Stato di bandiera della nave (cioè l’Italia) come previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, della quale sia l’Italia che l’India sono parti.

La decisione, sempre per quel che si apprende da fonti di stampa, ha comunque escluso che ai due marò italiani possa essere riconosciuta una qualche forma di immunità, benché, come si osserva in Italia da molte parti, fossero personale militare in servizio per un fine di interesse pubblico (il contrasto alla pirateria) e dunque veri e propri organi dello Stato italiano. In questo caso, una norma consuetudinaria  riconoscerebbe una immunità cosiddetta “funzionale” sottraendo dunque chi ne beneficia alla giurisdizione dello Stato eventualmente competente. Il condizionale è d’obbligo perché in materia è difficile ricostruire principi inequivoci.

Dunque, da un punto di vista giuridico, la decisione sembrerebbe non aver mutato il punto di vista della autorità indiane, anche se rappresenta un fatto indubbiamente positivo che la Corte abbia declinato la giurisdizione a favore di un organo dello Stato federale. Le autorità italiane hanno incassato il risultato, esprimendo una moderata e prudente soddisfazione.

A quanti lamentano un presunto eccesso di prudenza da parte delle autorità italiane va ricordato che il caso in questione coinvolge importanti e delicati equilibri politico-diplomatici e dunque va affrontato con adeguata cautela.  I fatti si sono svolti con certezza nella Zona Economica Esclusiva indiana e dunque in una parte di mare che, anche se per quel che riguarda la giurisdizione penale  non può essere assimilata al mare territoriale, è oggetto di ampi poteri riconosciuti dal diritto internazionale a tutela dei diritti di pesca. Tutela che le autorità indiane hanno più volte mostrato di voler esercitare con fermezza, peraltro in linea con una generale politica da Grande Potenza emergente che può anche esigere a volte una risolutezza inusuale. L’India ritiene infatti di avere tutto il diritto di proteggere i propri pescatori anche quando, temendo per le proprie reti derivanti, affrontano le navi di passaggio con fare minaccioso (cosa che sembra sia accaduta nel caso di specie, generando l’equivoco).  

E' facile ipotizzare che la vicenda, nonostante i suoi indubbi profili giuridici e giudiziari,  si chiuderà solo quando le due diplomazie potranno negoziare una soluzione che permetta ad entrambi gli Stati coinvolti una onorevole chiusura del caso.