mercoledì 8 novembre 2023

Politiche di coesione e transizione ecologica

 

Intervenendo il 23 ottobre al seminario “Futuro e competenze. La sfida della transizione ecologica” promosso da Europe Direct Catania (EDCT), insieme ai Dipartimenti di Giurisprudenza e Scienze Politiche e Sociali e al Centro di Documentazione Europea (CDE) dell’Università ho voluto ribadire che la transizione ecologica deve attuarsi tenendo conto delle esigenze della coesione economica, sociale e territoriale. Ecco una sintesi del mio indirizzo di saluto

 

«Cari colleghi e amici, gentili signore e signori,

con piacere rivolgo a tutti i partecipanti a questo seminario il saluto del Centro di Documentazione Europea dell’Università di Catania.

La transizione ecologica è ormai a pieno titolo una priorità dell’Unione europea. Attraverso il Green Deal europeo si punta a rendere l'Europa climaticamente neutra entro il 2050, a rilanciare l'economia grazie alla tecnologia verde, a creare industrie e trasporti sostenibili e ridurre l'inquinamento.

Occorre però trasformare le sfide climatiche e ambientali in opportunità per rendere la transizione più giusta e inclusiva per tutti.

Finalità che rappresenta, per dir così, il core business della politica di coesione.

Mi piace qui ricordare che l’Ottavo Rapporto dell’Unione sulla Coesione sottolinea l’importanza del principio del non nuocere alla coesione “secondo il quale nessuna azione dovrebbe ostacolare il processo di convergenza o contribuire alle disparità regionali”.

 Ciò implica dunque che si ponga attenzione non solo al perseguimento degli obiettivi della transizione ecologica, ma anche alle interdipendenze strategiche di ogni intervento sui territori, rafforzando l’incidenza di quegli strumenti come, ad esempio, le valutazioni di impatto territoriale.

Con questo invito concludo e auguro buon lavoro a tutti!»

 Rosario Sapienza

domenica 5 novembre 2023

L'Europa che ... non c'è

Da circa settant’anni ci raccontiamo tutti una cosa non vera.

Ed è che esista qualcosa che possa definirsi unità europea e che questa unità europea si sia prodotta grazie all’operare di una complessa struttura fatta di burocrati e rappresentanze statali fra loro variamente interagenti.

Così invece non è.

E per averne la misura non occorre leggere La capitale, il celeberrimo affresco tracciato qualche anno fa da Robert Menasse su una Bruxelles capitale di una euroburocrazia autoreferenziale.

Può essere sufficiente leggere l’ultimo discorso sullo stato dell’Unione licenziato il 13 settembre dalla presidente Ursula von der Leyen, ove insuccessi e ritardi vengono raccontati con doveroso entusiasmo istituzionale come momenti di un inarrestabile cammino verso un radioso futuro eurounitario.

Mentre, con singolare, paradossale, certo non voluta, coincidenza, Lampedusa vede arrivare nello stesso giorno migliaia di migranti, nella totale assenza dell’Unione europea.

E mentre, coincidenza questa sì voluta, Francia e Germania, questa volta d’accordo (una volta tanto, verrebbe da dire) reagiscono bloccando i trasferimenti dei dublinanti dall’Italia accampando pretesti da legulei.

Una Europa, dunque, assente.

Una Europa che … non c’è.

E a questa Europa che, appunto, non c’è, intendiamo dedicare, anche su queste pagine, in una serie di articoli, la nostra preoccupata attenzione.

Ma fin da questa prima introduzione, occorre proporre alcune riflessioni preliminari.

La prima è che parlare di Europa che … non c’è vuol essere un espediente polemico per sottolineare carenze e ritardi perché pensiamo che uno dei mali dell’Europa sia da sempre la sua macchina propagandistica, efficiente ed efficace nel nascondere queste carenze e questi ritardi.

Qualcuno deve pur raccontarlo.

La seconda è che occorre segnalare la confusione nella quale versa la macchina istituzionale europea.

L’Europa … non c’è perché è proprio la confusa babele istituzionale che opera attivamente perché l’Europa … non ci sia.

Una confusione istituzionale che si è poi aggravata da quando l’Unione europea si è sostituita alle Comunità europee.

Sì, perché l’Unione europea non è semplicemente una evoluzione rispetto alla dimensione comunitaria, ma una nuova e distinta creatura istituzionale all’interno della quale gli Stati membri hanno rafforzato la dimensione della loro cooperazione intergovernativa rispetto alla dimensione autenticamente europea.

Per proteggersi dalla europeizzazione, quella vera, che pure sarebbe possibile.

Spesso dunque operando attivamente perché l’Europa … non ci sia.

Certo, si potrebbe osservare che- l’Europa unita è sempre stata più un’aspirazione che una realtà.

Fin dai tempi gloriosi del Manifesto di Ventotene.

Ma oggi, sembra di poter dire, abbiamo proprio nell’Unione europea il principale avversario della costruzione di una Europa autenticamente unita.

E questa è una novità non da poco.

Qualcuno deve pur raccontarlo.

Rosario Sapienza

 


giovedì 16 settembre 2021

Se sembra impossibile, allora si può fare.

 


Se sembra impossibile, allora si può fare.

Così ha concluso la sua allocuzione davanti al Parlamento europeo la presidente della Commissione europea in occasione del suo discorso sullo stato dell’Unione ieri 15 settembre.

Una citazione da Bebe Vio, la schermitrice italiana, medaglia d’oro alle Paralimpiadi di Tokyo, presente in aula, invitata a rendere testimonianza di quanto possano l’entusiasmo e la forza di volontà, ad essere modello ideale per i giovani europei e non solo per i giovani, ma per l’Europa tutta.

Questa la cifra del discorso tenuto da Ursula von der Leyen. Un discorso tutto volto alla ricerca di un’anima per l’Europa, quell’anima che Robert Schumann riteneva necessaria perché il cammino verso la sempre maggiore integrazione europea fosse instancabile e coerente.

L’occasione si prestava davvero e il momento attuale poteva sembrar consentire alla presidente qualche entusiasmo in più.

E la presidente non si è fatta scappare l’occasione. Celebrando una Europa capace di resistere all’attacco della pandemia da Covid 19, capace di superare la crisi economica dal 2008 in poi, capace insomma di fare e, soprattutto, di essere.

Tanto che, sull’onda di questo entusiasmo, e ricordando probabilmente di essere stata la prima donna tedesca a ricoprire la carica di ministro della difesa, la von der Leyen si è lanciata ad ipotizzare una Unione europea della difesa, argomentando in maniera convincente a favore della necessità.

Scelta coraggiosa, ma carica di rischi. Dato che il tema della difesa comune è sempre stato all’ordine del giorno dell’agenda europea, e sempre è stato occasione di divisioni e polemiche.

Ma ciò non vuol dire certo che non si possa riproporre il tema.

Solo che, però, l’impressione generale però rimane quella di un discorso di doveroso incoraggiamento, di un appello ad un entusiasmo che in verità sembra non esserci, di un passaggio necessario, ma non si sa bene verso che cosa.

Forse, del resto, era questo e null’altro, quel che ci si poteva attendere. Archiviamolo e andiamo avanti.

giovedì 1 luglio 2021

La legge 91 del 14 giugno 2021. Finalmente una Zona Economica Esclusiva italiana?

 

Con la legge n. 91 del 14 giugno 2021 l’Italia ha deciso di dotarsi di una Zona Economica Esclusiva.

La Zona Economica Esclusiva è, come si sa, un'area adiacente al mare territoriale, estesa fino a 200 miglia dalla linea di base, nella quale lo Stato costiero esercita particolari poteri per finalità essenzialmente economiche. Essa viene definita nella Parte V (artt. 55-75) della Convenzione di Montego Bay del 1982.

 Venendo alla configurazione del regime dei poteri in quest'area, occorre concludere che in essa si configura un regime sui generis, caratterizzato dalla coesistenza di alcuni specifici poteri dello Stato costiero volti allo sfruttamento economico delle risorse dell'area e delle libertà a vantaggio degli altri Stati tipiche dell'alto mare.

 È ormai certo che essa non esiste ipso jure, quale automatica e diretta pertinenza della sovranità territoriale (a somiglianza di quel che accade per il mare territoriale), ma che invece lo Stato costiero deve procedere a una esplicita proclamazione volta alla sua istituzione, cosa che appunto l’Italia fa con questa legge.

Secondo la Convenzione del 1982, lo Stato costiero esercita sulla Zona ampi ma circoscritti poteri così qualificati:

(1) diritti sovrani all'esplorazione, sfruttamento, conservazione e gestione delle risorse naturali, viventi o non, delle acque e del fondo e sottosuolo marino, nonché ad altre attività di sfruttamento economico, quali la protezione di energia dalle acque, dalle correnti e dai venti;

(2) "jurisdiction" sull'insediamento e uso di isole artificiali, installazioni e strutture, ricerca scientifica e la protezione e preservazione dell'ambiente marino;

(3) altri diritti e obblighi previsti dalla Convenzione (art.56).

Una parola di commento merita il fatto che l’Italia giunga solo adesso alla istituzione della Zona Economica Esclusiva.

Fin qui, il nostro Paese aveva scelto infatti, come altri Stati mediterranei, la via della istituzione di zone tematiche, istituendo ad esempio con la legge 8 febbraio 2006 n. 61, zone di protezione ecologica oltre il limite esterno del mare territoriale, quale ad esempio quella del Mediterraneo nord occidentale, del Mar Ligure e del Mar Tirreno, istituita con il DPR 27 ottobre 2011 n. 209.

Ma le cose sono cambiate recentemente e diversi Stati che si affacciano sul Mediterraneo hanno già da tempo istituito Zone Economiche Esclusive, anche se con non pochi problemi, visto che il Mediterraneo non è un oceano e dunque, a contare 200 miglia marine dalle proprie coste si finisce inevitabilmente con l’affacciarsi in prossimità delle coste di qualche altro Stato.

In questo senso si sono orientati alcuni Stati contigui o frontisti dell'Italia e segnatamente la Croazia nel 2003, la Francia, che nel 2012 ha trasformato in ZEE la sua zona di protezione ecologica, la Spagna che nel 2013 ha trasformato in ZEE la zona di protezione della pesca, la Tunisia nel 2005, la Libia, che nel 2009 ha trasformato in ZEE la precedente Zona di protezione della pesca.

Un caso a parte è rappresentato dall'Algeria che nel 2018 ha istituito una ZEE, senza alcun accordo con gli Stati frontisti e confinanti, un'area che si sovrappone, ad ovest della Sardegna, alla zona di protezione ecologica (ZPE) istituita dal nostro Paese nel 2011 e con l'analoga ZEE istituita dalla Spagna nel 2013. L'Italia ha contestato la legittimità del provvedimento algerino e negoziati sono in corso per la soluzione del contenzioso.

 Ciò ha indotto anche l'Italia a scegliere la strada della istituzione della Zona Economica Esclusiva.

Misura che si spera possa preludere a una politica italiana più attiva a difesa dei propri non pochi interessi nell’area del Mediterraneo.

martedì 20 aprile 2021

Riparte la Conferenza sul futuro dell'Europa. Una occasione imperdibile!

 

Ieri ho partecipato a un interessante confronto online promosso dalla Fondazione PER “Progresso, Europa, Riforme” in occasione della presentazione ufficiale della piattaforma digitale per lo svolgimento della Conferenza sul futuro dell’Europa.

Da quando, lo scorso 10 marzo, i presidenti della Commissione europea, del Parlamento europeo e del Consiglio hanno firmato una «Dichiarazione comune sulla Conferenza sul futuro dell’Europa», il sistema sembra essersi rimesso in moto e la data del 9 maggio prossimo come data di apertura ufficiale della Conferenza sembra ormai certa.

La proposta di una Conferenza sul futuro dell’Europa venne lanciata, come si sa, dal Presidente Macron nella primavera del 2019 e fu entusiasticamente adottata dalla Presidentessa della Commissione von der Leyen, che ne propose pure un’agenda e un calendario con inizio il 9 maggio 2020, a celebrazione simbolica dei settant’anni della dichiarazione Schuman.

Poi fu il COVID, la pandemia e il lockdown e della Conferenza si perse ogni traccia.

Così la Dichiarazione comune del 10 marzo rappresenta una buona notizia perché rimette in moto il processo, peraltro in un contesto che appare complicato, a tacer d’altro, dalla pandemia che non si arresta, dalla crisi economica ormai dilagante, dalla Brexit ancora tutta da capire nelle sue conseguenze, dalle costanti iniziative eversive dei sovranisti (che non rinunciano a considerare l’Unione semplicemente un bancomat e non una comunità di valori).

Ma la Dichiarazione è una buona notizia, anche perché, quantomeno, configura un armistizio tra le tre istituzioni, in conflitto fra di loro per la conduzione dei lavori della Conferenza. 

Conflitto che sembra appianato, come si evince dalla Dichiarazione stessa che, in un passaggio che val la pena di citare per intero, ne descrive l’articolato (e complicato) meccanismo di governance. Si dice infatti che:

«La conferenza sarà posta sotto l'egida delle tre istituzioni, rappresentate dal presidente del Parlamento europeo, dal presidente del Consiglio e dalla presidente della Commissione europea, che svolgeranno le funzioni di presidenza congiunta.

Una struttura di governance snella contribuirà a guidare la conferenza; garantirà una rappresentanza paritaria delle tre istituzioni europee e sarà equilibrata sotto il profilo del genere, in tutte le sue componenti.

Sarà istituito un comitato esecutivo, composto da una rappresentanza paritaria del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione europea, con tre rappresentanti e un massimo di quattro osservatori per ciascuna istituzione. La troika presidenziale della COSAC (la Conferenza degli Organi Specializzati negli Affari Comunitari dei Parlamenti nazionali n.d.r.) parteciperà in qualità di osservatore. Anche il Comitato delle regioni e il Comitato economico e sociale possono essere invitati in qualità di osservatori, come pure, se del caso, rappresentanti di altri organismi dell'UE e delle parti sociali.

Il comitato esecutivo sarà copresieduto dalle tre istituzioni e riferirà periodicamente alla presidenza congiunta. Il comitato esecutivo sarà responsabile dell'adozione per consenso delle decisioni connesse ai lavori della conferenza e ai suoi processi ed eventi, nonché della supervisione della conferenza nel corso del suo svolgimento e della preparazione delle sessioni plenarie della conferenza, compresi i contributi dei cittadini e il loro seguito».

È difficile al momento prevedere cosa la Conferenza potrà realizzare. Ed in particolare, è difficile dire se essa si ridurrà alla ennesima consultazione dei cittadini o se potrà essere una storica occasione costituente.

Certo, visto il precedente inglorioso del 2002 che portò al progetto di una Costituzione europea del 2004, poi sconfessata, converrebbe evitare di professare ambizioni costituenti.

Ma vorremmo, come si dice, gettare comunque il cuore oltre l’ostacolo e indicare alcuni passaggi, di fatto costituenti, sui quali occorrerà comunque impegnarsi.

Il primo è un riequilibrio degli assetti istituzionali dell’Unione, oggi troppo sbilanciati a favore della componente intergovernativa e delle mediazioni in seno al Consiglio europeo, con il Consiglio invece spesso in difficoltà con le complicate maggioranze e la necessità in molti (troppi) casi della unanimità.

La soluzione è una sola ed è quella della generalizzazione del voto a maggioranza qualificata dovunque e comunque. Non ci si riuscì nel 2002, bisogna riprovarci a tutti i costi, come oggi usa dire.

Il secondo è un riassetto complessivo dei meccanismi di governance dell’Unione, aprendo spazi inediti al coinvolgimento delle rappresentanze degli enti regionali e locali e del mondo produttivo, relegate nell’attuale modello di governance a un ruolo da comprimari dalla competenza semplicemente consultiva del Comitato delle Regioni e del Comitato Economico e Sociale.

Invece, essi rappresenterebbero, se adeguatamente valorizzati, la possibilità di un originale e innovativo modello istituzionale europeo, basato sull’apporto non più solo della rappresentanza politica generale attraverso il Parlamento europeo (certo importantissima), ma anche sul coinvolgimento dei territori e delle forze produttive.

In terzo luogo, occorre una riforma seria e profonda dell’istituto della cittadinanza europea, oggi ancora troppo vincolato alla cittadinanza nazionale della quale rappresenta un mero complemento, peraltro fortemente ad essa subordinato.

Bisogna, invece, come disse la Corte di Giustizia, operare per farla diventare la posizione giuridica centrale nel sistema del diritto europeo.

Certo, sono obiettivi non facili da cogliere, ma ineludibili se vogliamo una Europa basata su una comunanza di valori e non semplicemente su fondi e finanziamenti.

La Conferenza sul futuro dell’Europa rappresenta una occasione imperdibile. 

 

 

 

venerdì 1 gennaio 2021

Catania Internazionale. Per i venticinque anni di un movimento internazionalista glocale

    Tra le cose che la pandemia tutt'ora dilagante ha costretto a rinviare vanno annoverate le celebrazioni progettate per il venticinquesimo anniversario di Catania Internazionale.

    Catania Internazionale nasce dall'attività dell'Osservatorio Europeo e Internazionale ed è il contenitore multipurpose di iniziative che mirano a promuovere la diffusione a Catania del pensiero internazionalista.

    E’ stato fondato nel 1995, al fine di assicurare una più incisiva azione sul territorio del movimento internazionalista, ossia il movimento di tutti coloro che antepongono i valori della pace e della cooperazione internazionale al nazionalismo e al sovranismo e considerano propri riferimenti culturali prioritari l’insegnamento di Kant e la testimonianza del pacifismo internazionale.

      Catania Internazionale guarda alla società globale non come una involuzione o una deviazione dall'ideale internazionalista, ma piuttosto come una opportunità per l’affermazione dei valori dell’internazionalismo.

       Catania Internazionale opera attraverso una capillare opera di sensibilizzazione delle élites nelle Università e nei circuiti politici e culturali. Sin dalla sua fondazione ha promosso e organizzato interventi  formativi e manifestazioni culturali in collaborazione con Università e associazioni  della società civile a Catania e in Sicilia, per dare una dimensione glocale alle sue iniziative, sensibilizzando le comunità locali ai valori dell'internazionalismo e del pensiero globale.

mercoledì 25 novembre 2020

Taccuino europeo del mese di novembre

In questo mese di novembre sono tante le novità che si sono succedute tra Bruxelles e le capitali europee. Due mi sembrano più interessanti.

Particolarmente degna di nota mi pare l'intervista rilasciata nei primi giorni del mese dal presidente Macron al giornale online Le Grand Continent, ripresa in estratti dal Corriere della Sera il 16 novembre.

In essa Macron dice sostanzialmente che, per uscire dalla situazione di crisi che l’Europa si trova a fronteggiare a motivo della pandemia, ma anche per i frequenti attacchi terroristici, l’Europa e per essa gli Stati membri e l’Unione europea devono, attraverso strategie comuni, spingere più in là la frontiera della loro cooperazione e integrazione fino ad arrivare a una vera sovranità europea, indipendente da quelle dei singoli Stati anche sulla base di esse edificata, e capace di candidare l’Europa unita a un ruolo di protagonismo sulla scena internazionale. Non lo dice espressamente ma per fare tutto  questo ci vuole un nuovo trattato.

Ma, egli incalza, la scena internazionale appare caratterizzata sempre più  dalla crisi del multilateralismo e sulla quale una Europa che abbia vinto le sue grandi sfide, quella educativa, quella sanitaria, quella digitale e quella verde, può a buon diritto presentarsi come un player di primaria statura.

In verità, già a partire dal discorso alla Sorbona del 2017, questi temi sono stati presenti nella narrazione europea proposta dal presidente francese e, da questo punto di vista, l’intervista che commentiamo non rappresenta una grande novità.

Così come non rappresenta una novità il fatto che nel pas des deux franco-tedesco, che va in scena ormai da diversi anni, i ruoli sembrano invertirsi. La Germania “federalista” che volle il trattato sull’Unione e poi il suo ripensamento a Lisbona appare oggi attestata su posizioni più attente alla sovranità statale, probabilmente per non complicarsi il dialogo con i Frugali e fors’anche con il Gruppo di Visegrad, mentre la Francia, che prima frenava quegli slanci, sembra tornata ai tempi, gloriosi senza dubbio, di Jacques Delors e della sua ampia visione europeista.

La vera novità mi sembra invece essere rappresentata dal deciso attacco che Macron sembra muovere al multilateralismo degli Stati, fin qui espresso dall’ONU e dal disegno globalista degli Stati Uniti, e dalla proposta di un nuovo multilateralismo basato sul coinvolgimento, accanto agli Stati, delle imprese, delle associazioni della società civile, degli attori locali. E dalla candidatura dell’Europa unita a un ruolo più attivo su questo nuovo scenario internazionale, questa una assoluta novità.

Il secondo elemento di interesse è costituito dal cosiddetto veto opposto da Ungheria e Polonia all'approvazione del Recovery Plan. 

In verità il “veto” riguarda l'aumento del "tetto delle risorse proprie" degli Stati membri, passaggio previo all’attuazione del  piano "Next Generation EU", e da approvarsi all’unanimità, mentre non tocca l’iter del testo di compromesso fra Parlamento europeo e Consiglio Ue, per il quale non è prevista l'unanimità, e che dunque passerà a maggioranza qualificata (ai sensi del Capo I del Titolo VIII del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), secondo quello che appare probabile al momento.

L’aumento del tetto delle risorse proprie degli Stati membri (da approvarsi all’unanimità) è però necessario per reperire i finanziamenti da utilizzare per avviare il Next Generation EU ed anche per approvare (anche qui all’unanimità tra l’altro) il Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e dunque qui sta l’effetto di “veto”.

A dire il vero non sarebbe nemmeno una notizia, dato che la posizione assunta era stata più volte anticipata. Come pure chiara a sufficienza è la motivazione: i due Stati non sono disposti ad accettare la norma, voluta dal Parlamento europeo, che prevede che l’erogazione dei fondi del Recovery Plan potrebbe essere congelata in caso di violazioni dei principi dello Stato di diritto, enunciati insieme ad altri principi quali valori fondanti dell’Unione europea fin dall’articolo 2 del Trattato che istituisce l’Unione europea (TUE).

Qualche parola di commento l’accaduto la merita però comunque. Cercheremo di comprendere meglio le complessive implicazioni di questa presa di posizione e di anticipare, per quanto possibile al momento, le probabili soluzioni di quello che indubbiamente si caratterizza come uno stallo sulla via, già di per sé ardua e accidentata, che conduce all’operatività piena del Recovery Plan e dunque alla disponibilità dei suoi finanziamenti di cui tutti gli Stati membri (incluse Polonia e Ungheria, non dimentichiamolo) hanno davvero bisogno.   

Tanto per cominciare, chiariamo come c’entra il discorso sullo Stato di diritto con la questione della disponibilità dei finanziamenti. C’entra perché, coerentemente con una posizione non da ora assunta, il Parlamento europeo ha ottenuto un consenso di massima dagli altri Stati sul fatto che Stati irrispettosi dei principi dello Stato di diritto potrebbero vedersi congelati i finanziamenti. E Polonia e Ungheria hanno notoriamente adottato riforme interne che certo non possono considerarsi in linea con i principi dello Stato di diritto: riforme che attentano alla indipendenza dei giudici, ad esempio, o alla libertà d’espressione dei giornalisti.

Ora, e non da ora, l’Unione europea affida al rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani e degli altri valori enunciati all’articolo 2 del Trattato sull’Unione la propria strategia di evoluzione che dovrebbe (il condizionale è comunque d’obbligo) portarla ad essere sempre più una organizzazione che si regge sulla garanzia di valori comuni e non un semplice mercato unico.

E come lo fa? Lo fa con la strategia della condizionalità, ossia subordinando la concessione di utilità e finanziamenti al rispetto di certi valori e principi. Come del resto avviene in diversi altri settori di attività.

Come si vede, quindi, quello che è in gioco in questo braccio di ferro è il futuro stesso dell’Unione e non solo la pur fondamentale problematica finanziaria.

Polonia e Ungheria la pensano infatti diversamente. Pensano che non sia una buona idea quella di imporre agli Stati membri regole e principi che li inducano ad adottare questo o quel regime interno, e questa è l’essenza di quello che oggi si chiama sovranismo, ed inoltre sanno benissimo di avere un assetto costituzionale interno che, anche a motivo di alcune recenti riforme (in materia di indipendenza della magistratura e di garanzia dei diritti fondamentali), oggi impedirebbe loro addirittura di divenire membri dell’Unione (se già non lo fossero) dato che l’articolo 49 del TUE prevede che “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione” e comunque, dato che invece sono membri, li esporrebbe alla ennesima procedura sanzionatoria di cui all’articolo 7 che si origina appunto dalla constatazione anche solo di “un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2”.

Il cammino dell'Unione giunge così a un tornante difficile. 

Se è sotto gli occhi di tutti lo scontro tra Polonia, Ungheria e adesso anche la Slovenia e tutti gli altri Stati in ultima analisi sulla natura dell'Europa, se essa debba rimanere una unione economica di Stati o diventare una vera comunità di valori, meno evidente, ma non meno netto e profondo, è lo scontro in atto tra la Germania e la Francia. Questa chiede in sostanza una revisione dei trattati che dia nuovo slancio all'Unione, la Germania rimane fedele all'idea di una Unione di Stati, retta da accordi ispirati dalla ideologia tutta germanica dell'ordoliberalismo, nascosto dietro la formuletta dell'economia sociale di mercato fortemente competitiva (articolo 3 del Trattato sull'Unione europea).

Non chiediamoci dove sta l'Italia in tutto questo, perché è difficile trovare una risposta. E trovandola, potrebbe non piacerci.