In questo mese di novembre sono tante le novità che si sono succedute tra Bruxelles e le capitali europee. Due mi sembrano più interessanti.
Particolarmente degna di nota mi pare l'intervista rilasciata nei primi giorni del mese dal presidente Macron al giornale online Le Grand Continent, ripresa in estratti dal Corriere della Sera il 16 novembre.
In essa Macron dice sostanzialmente che, per uscire dalla situazione
di crisi che l’Europa si trova a fronteggiare a motivo della pandemia, ma anche
per i frequenti attacchi terroristici, l’Europa e per essa gli Stati membri e
l’Unione europea devono, attraverso strategie comuni, spingere più in là la
frontiera della loro cooperazione e integrazione fino ad arrivare a una vera
sovranità europea, indipendente da quelle dei singoli Stati anche sulla base di
esse edificata, e capace di candidare l’Europa unita a un ruolo di protagonismo
sulla scena internazionale. Non lo dice espressamente ma per fare tutto questo ci vuole un nuovo trattato.
Ma, egli incalza, la scena internazionale appare caratterizzata sempre più dalla crisi del multilateralismo e sulla quale una Europa che abbia vinto le
sue grandi sfide, quella educativa, quella sanitaria, quella digitale e quella
verde, può a buon diritto presentarsi come un player di primaria statura.
In verità, già a partire dal discorso alla Sorbona del 2017,
questi temi sono stati presenti nella narrazione europea proposta dal
presidente francese e, da questo punto di vista, l’intervista che commentiamo
non rappresenta una grande novità.
Così come non rappresenta una novità il fatto che nel pas des deux franco-tedesco, che va in
scena ormai da diversi anni, i ruoli sembrano invertirsi. La Germania
“federalista” che volle il trattato sull’Unione e poi il suo ripensamento a
Lisbona appare oggi attestata su posizioni più attente alla sovranità statale,
probabilmente per non complicarsi il dialogo con i Frugali e fors’anche con il
Gruppo di Visegrad, mentre la Francia, che prima frenava quegli slanci, sembra
tornata ai tempi, gloriosi senza dubbio, di Jacques Delors e della sua ampia
visione europeista.
La vera novità mi sembra invece essere rappresentata dal
deciso attacco che Macron sembra muovere al multilateralismo degli Stati, fin
qui espresso dall’ONU e dal disegno globalista degli Stati Uniti, e dalla
proposta di un nuovo multilateralismo basato sul coinvolgimento, accanto agli
Stati, delle imprese, delle associazioni della società civile, degli attori
locali. E dalla candidatura dell’Europa unita a un ruolo più attivo su questo
nuovo scenario internazionale, questa una assoluta novità.
Il secondo elemento di interesse è costituito dal cosiddetto veto opposto da Ungheria e Polonia all'approvazione del Recovery Plan.
In verità il “veto” riguarda l'aumento
del "tetto delle risorse proprie" degli Stati membri, passaggio
previo all’attuazione del piano "Next
Generation EU", e da approvarsi all’unanimità, mentre non tocca l’iter del
testo di compromesso fra Parlamento europeo e Consiglio Ue, per il quale non è
prevista l'unanimità, e che dunque passerà a maggioranza qualificata (ai sensi
del Capo I del Titolo VIII del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea),
secondo quello che appare probabile al momento.
L’aumento del tetto delle risorse
proprie degli Stati membri (da approvarsi all’unanimità) è però necessario per
reperire i finanziamenti da utilizzare per avviare il Next Generation EU ed
anche per approvare (anche qui all’unanimità tra l’altro) il Quadro finanziario
pluriennale 2021-2027 e dunque qui sta l’effetto di “veto”.
A dire il vero non sarebbe nemmeno
una notizia, dato che la posizione assunta era stata più volte anticipata. Come
pure chiara a sufficienza è la motivazione: i due Stati non sono disposti ad
accettare la norma, voluta dal Parlamento europeo, che prevede che l’erogazione
dei fondi del Recovery Plan potrebbe essere congelata in caso di violazioni dei
principi dello Stato di diritto, enunciati insieme ad altri principi quali
valori fondanti dell’Unione europea fin dall’articolo 2 del Trattato che
istituisce l’Unione europea (TUE).
Qualche parola di commento
l’accaduto la merita però comunque. Cercheremo di comprendere meglio le
complessive implicazioni di questa presa di posizione e di anticipare, per
quanto possibile al momento, le probabili soluzioni di quello che indubbiamente
si caratterizza come uno stallo sulla via, già di per sé ardua e accidentata,
che conduce all’operatività piena del Recovery Plan e dunque alla disponibilità
dei suoi finanziamenti di cui tutti gli Stati membri (incluse Polonia e
Ungheria, non dimentichiamolo) hanno davvero bisogno.
Tanto per cominciare, chiariamo come
c’entra il discorso sullo Stato di diritto con la questione della disponibilità
dei finanziamenti. C’entra perché, coerentemente con una posizione non da ora
assunta, il Parlamento europeo ha ottenuto un consenso di massima dagli altri
Stati sul fatto che Stati irrispettosi dei principi dello Stato di diritto
potrebbero vedersi congelati i finanziamenti. E Polonia e Ungheria hanno notoriamente
adottato riforme interne che certo non possono considerarsi in linea con i
principi dello Stato di diritto: riforme che attentano alla indipendenza dei
giudici, ad esempio, o alla libertà d’espressione dei giornalisti.
Ora, e non da ora, l’Unione
europea affida al rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani e degli
altri valori enunciati all’articolo 2 del Trattato sull’Unione la propria
strategia di evoluzione che dovrebbe (il condizionale è comunque d’obbligo) portarla
ad essere sempre più una organizzazione che si regge sulla garanzia di valori
comuni e non un semplice mercato unico.
E come lo fa? Lo fa con la
strategia della condizionalità, ossia subordinando la concessione di utilità e
finanziamenti al rispetto di certi valori e principi. Come del resto avviene in
diversi altri settori di attività.
Come si vede, quindi, quello che è
in gioco in questo braccio di ferro è il futuro stesso dell’Unione e non solo
la pur fondamentale problematica finanziaria.
Polonia e Ungheria la pensano infatti
diversamente. Pensano che non sia una buona idea quella di imporre agli Stati
membri regole e principi che li inducano ad adottare questo o quel regime
interno, e questa è l’essenza di quello che oggi si chiama sovranismo, ed inoltre
sanno benissimo di avere un assetto costituzionale interno che, anche a motivo
di alcune recenti riforme (in materia di indipendenza della magistratura e di
garanzia dei diritti fondamentali), oggi impedirebbe loro addirittura di
divenire membri dell’Unione (se già non lo fossero) dato che l’articolo 49 del
TUE prevede che “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2
e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione” e
comunque, dato che invece sono membri, li esporrebbe alla ennesima procedura
sanzionatoria di cui all’articolo 7 che si origina appunto dalla constatazione
anche solo di “un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato
membro dei valori di cui all’articolo 2”.
Il cammino dell'Unione giunge così a un tornante difficile.
Se è sotto gli occhi di tutti lo scontro tra Polonia, Ungheria e adesso anche la Slovenia e tutti gli altri Stati in ultima analisi sulla natura dell'Europa, se essa debba rimanere una unione economica di Stati o diventare una vera comunità di valori, meno evidente, ma non meno netto e profondo, è lo scontro in atto tra la Germania e la Francia. Questa chiede in sostanza una revisione dei trattati che dia nuovo slancio all'Unione, la Germania rimane fedele all'idea di una Unione di Stati, retta da accordi ispirati dalla ideologia tutta germanica dell'ordoliberalismo, nascosto dietro la formuletta dell'economia sociale di mercato fortemente competitiva (articolo 3 del Trattato sull'Unione europea).
Non chiediamoci dove sta l'Italia in tutto questo, perché è difficile trovare una risposta. E trovandola, potrebbe non piacerci.
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