di Rosario Sapienza
Ricorre domani
la Giornata Mondiale dei Diritti Umani che ha come tema la celebrazione del ventesimo anniversario dall'istituzione dell'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (
http://www.un.org/en/events/humanrightsday/ ). La data è stata scelta per ricordare la proclamazione da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite della Dichiarazione universale dei diritti umani, il 10 dicembre 1948 con la risoluzione 217/III, un testo che a sessantacinque anni dalla sua approvazione mantiene intatta la sua forza morale, ma purtroppo anche le sue intrinseche debolezze.
La Giornata è uno degli eventi di punta nel calendario del quartier generale delle Nazioni Unite a New York ed è onorata con conferenze di alto profilo politico ed eventi culturali come mostre o concerti riguardanti l'argomento dei diritti umani. Inoltre, in questa giornata vengono tradizionalmente attribuiti i due più importanti riconoscimenti in materia, ovvero il Premio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, assegnato a New York, e il Premio Nobel per la pace ad Oslo. Quest'anno il Premio Nobel è stato assegnato all'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche.
In tutto il mondo, poi, molte altre organizzazioni, intergovernative e non governative, scelgono questa giornata per eventi significativi che celebrano i diritti umani e sottolineano l’urgenza della loro protezione.
Benché il testo della Dichiarazione sia arcinoto, può essere qui utile brevemente richiamarne la struttura. La Dichiarazione consta di 30 articoli che possono essere così ordinati: gli articoli 1-2 enunciano i diritti di tutti gli uomini alla libertà ed eguaglianza; gli articoli 3-11 contengono una riproposizione dei diritti di libertà individuale, tra i quali all’art. 9 il cosiddetto habeas corpus; gli articoli 12-17 enunciano i diritti dell'individuo nella comunità in cui egli è inserito; gli articoli 18-21 riprendono il catalogo delle cosiddette "libertà borghesi", ossia la libertà di pensiero, coscienza e religione (art. 18), di opinione e di espressione (art. 19), di riunione e di associazione pacifica (art. 20), di partecipazione politica (art. 21); gli articoli 22-27 enunciano i diritti economici, sociali e culturali, e cioè il diritto alla sicurezza sociale (art. 22), al lavoro (art. 23), al riposo e allo svago (art. 24), a un tenore di vita adeguato (art. 25), all’istruzione (art. 26), alla cultura (art. 27); gli articoli 28-30, a mo’ di conclusione chiariscono le condizioni alle quali è possibile il godimento dei diritti precedentemente enunciati, in particolare sottolineando il diritto “a un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati” (art. 28), richiamando i possibili fondamenti dei limiti al godimento dei diritti (art. 29), escludendo che la Dichiarazione possa essere utilizzata per raggiungere lo scopo di attentare al godimento dei diritti in essa enunciati (art. 30).
Nell’intenzione dei proponenti, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo doveva rappresentare a livello mondiale quello che nelle costituzioni degli Stati liberali era il cosiddetto Bill of Rights, ossia l’elenco dei fondamentali diritti della persona umana. L’idea della protezione dei diritti umani non era un’idea nuova. È noto infatti che le prime Dichiarazioni dei diritti dell’uomo risalgono al settecento ed esprimono la pressante urgenza di affermare l’esigenza di difesa della libertà del cittadino nei confronti di uno Stato tradizionalmente visto come avversario delle libertà. Sono, dunque, delle dichiarazioni “borghesi”, che ci consegnano un modello di Stato attento a non invadere gli spazi di libertà del singolo cittadino. Queste dichiarazioni le ritroviamo ancora, aggiornate e integrate, in molte costituzioni statali. Rispetto ad esse, però, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo presentava alcune fondamentali differenze. Innanzitutto, per quel che riguardava la sua forza obbligatoria. Mentre le Dichiarazioni dei diritti che fanno parte delle Carte costituzionali degli Stati sono delle vere e proprie leggi, anzi hanno talvolta una forza superiore a quella della stessa legge, la Dichiarazione Universale, come molte altre Dichiarazioni delle organizzazioni internazionali, aveva il valore di una semplice raccomandazione indirizzata dall'Assemblea Generale agli Stati. In altri termini, pur avendo un alto valore morale, la Dichiarazione non imponeva agli Stati l’obbligo di proteggere i diritti in essa contenuti, ma semplicemente raccomandava loro di farlo. E risulta comunque dagli atti della commissione chiamata ad elaborarla che essa si propose espressamente di redigere un testo giuridicamente non vincolante.
Ma c’era un altro elemento di debolezza della Dichiarazione e consisteva nel fatto che mentre le Dichiarazioni dei diritti adottate all'interno degli Stati esprimevano una concordanza su certi valori fondamentali, la Dichiarazione Universale rappresenta piuttosto il compromesso tra visioni della società non solo diverse fra di loro, ma addirittura antitetiche e contrapposte. E così, anche se la Dichiarazione enunciava certi diritti, era chiaro fin dall’inizio che questi diritti avrebbero significato cose diverse a seconda del Paese nel quale ad essi si dovesse dare tutela. Una cosa, per esempio, era parlare di libertà d’espressione negli Stati occidentali, un’altra negli Stati socialisti. E questo, diciamo così, equivoco di fondo, avrebbe segnato in maniera indelebile anche i successivi sviluppi in materia. Anche se deve precisarsi che in certa misura la difficoltà di fare emergere valori comuni dipende proprio dalla presenza tra gli Stati di differenti concezioni in materia e non da un atteggiamento di voluta sfiducia nella possibilità di dare un fondamento “forte”, ossia radicato nei valori, alla protezione internazionale dei diritti dell’uomo. D’altra parte anche se è vero che il testo fu adottato all’unanimità (nel senso che non ebbe alcun voto contrario) è pure vero che numerose furono le astensioni (tutti i Paesi dell’Europa dell’Est, l’Arabia Saudita, il Sudafrica) e che due Paesi non parteciparono al voto (Honduras e Yemen).
E ancor oggi, come a proposito del testo della Dichiarazione, la presenza nel mondo di differenti visioni culturali sull’uomo e sul suo rapporto con la società e le istituzioni politiche rappresenta un problema per il sistema delle Nazioni Unite. Nonostante l’esistenza di numerosi trattati internazionali sui diritti dell’uomo, fatica ad emergere una visione uniforme sui diritti umani. E, in una certa misura, è anche giusto (oltre che inevitabile) che sia così, poiché nessun popolo può rinunciare alla sua identità e originalità che gli viene dalle sue tradizioni e dalla sua cultura.
Il testo che venne approvato nel 1948 parla di diritti uguali per tutti e in questo senso può venire descritto come una rielaborazione del portato giusnaturalistico in tema di diritti umani: ma come non notare che la stessa idea giusnaturalistica di diritti uguali per tutti è un’idea di marca occidentale?
In fondo, lo stesso ideale internazionalista del pacifismo tardo ottocentesco, incarnatosi, anche se tardivamente, nelle organizzazioni internazionali universali, non riesce ad imporsi e non solo perché all’interno di quelle organizzazioni i Paesi non occidentali hanno una posizione di sicuro predominio, quantomeno numerico. Ciò accade perchè l'estensione di quei valori si scontra con formidabili difficoltà legate alla diversità di fondo dei sostrati culturali che caratterizzano gli Stati nel mondo, mentre, invece, l'ideale pacifista e umanitario del tardo ottocento pretende di costruire una pace che riposi su una comune civiltà, sull’accettazione di valori comuni e di un comune sentire dei popoli della terra. Esso finisce quindi con il giudicare intollerabile il fatto che dietro la sovranità statale si celino valori e modi di incarnarli assai differenti e quindi con il non poter “accontentarsi” di un ordine semplicemente convenzionale.
In realtà, quel pacifismo nasceva da una visione del mondo come retto da valori e regole universali perchè fondati su un comune sostrato culturale universale, su una sorta di diritto naturale universale, kantianamente affermato in termini per la verità piuttosto apodittici e ingenui.
Esiste invece uno scarto culturale tra l’Occidente e altre aree culturali, scarto che fa sì che il compito di costruire valori comuni che possano determinare una comune civiltà planetaria è assai arduo ed è, tutto sommato, ancora agli inizi. Non basta adottare strumenti internazionali in materia di diritti umani per far sì che i valori occidentali che di quegli strumenti sono il terreno di coltura si diffondano ipso facto a livello planetario. Ed è singolare, in verità, che un Occidente che ha prodotto gli studi di antropologia culturale non riesca a comprendere questo limite del suo ideale pangiuridico universale. Certo è che fino a quando non lo si comprenderà e non si opererà concretamente per un reale dialogo interculturale prima che internazionale, non si potrà dire di aver posto nemmeno la prima pietra all'edificazione di una comune civiltà giuridica a livello mondiale.
Nonostante questa difficoltà, un elemento di novità maturato in questi anni è invece rappresentato dal crescere dell’interesse per la tematica della protezione dei diritti umani nella queste tematiche, all’interno dei singoli Stati. Nascono dunque istituzioni promosse dalla società civile, la cui creazione è anche raccomandata dalla risoluzione 48/134 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e che presentano l’indubbio vantaggio di affiancare all’azione governativa per il rispetto dei diritti dell’uomo, una azione della gente comune per la tutela dei diritti.
Ciò produce un primo risultato importantissimo: quello di sottrarre la materia dei diritti umani e della loro protezione all’esclusiva competenza dei governi facendo diventare questi temi oggetto di un dibattito culturale e politico. E così facendo si invera la dimensione autenticamente costituzionale di un testo come la Dichiarazione Universale, patrimonio dunque condiviso e ispiratore di prassi attuative anche differenziate, ma concorrenti, secondo diverse tradizioni, ma sottratte al calcolo politico degli apparati.
Così la dimensione internazionale e quella nazionale, la dimensione istituzionale e quella della società civile si integrano e si consolida quella coscienza sociale che fa della protezione dei diritti umani un obiettivo politico, in senso alto, e non di parte, sottraendolo alla logica della ragion di Stati, rispetto alla quale i diritti umani appaiono dunque una frontiera sempre ulteriore, uno strumento di dialettica e di critica, un continuo rimando ad un altrove, fondato sull’inalienabile diritto dell’uomo alla propria originalità di essere irriducibile a qualunque manipolazione.