mercoledì 25 novembre 2020

Taccuino europeo del mese di novembre

In questo mese di novembre sono tante le novità che si sono succedute tra Bruxelles e le capitali europee. Due mi sembrano più interessanti.

Particolarmente degna di nota mi pare l'intervista rilasciata nei primi giorni del mese dal presidente Macron al giornale online Le Grand Continent, ripresa in estratti dal Corriere della Sera il 16 novembre.

In essa Macron dice sostanzialmente che, per uscire dalla situazione di crisi che l’Europa si trova a fronteggiare a motivo della pandemia, ma anche per i frequenti attacchi terroristici, l’Europa e per essa gli Stati membri e l’Unione europea devono, attraverso strategie comuni, spingere più in là la frontiera della loro cooperazione e integrazione fino ad arrivare a una vera sovranità europea, indipendente da quelle dei singoli Stati anche sulla base di esse edificata, e capace di candidare l’Europa unita a un ruolo di protagonismo sulla scena internazionale. Non lo dice espressamente ma per fare tutto  questo ci vuole un nuovo trattato.

Ma, egli incalza, la scena internazionale appare caratterizzata sempre più  dalla crisi del multilateralismo e sulla quale una Europa che abbia vinto le sue grandi sfide, quella educativa, quella sanitaria, quella digitale e quella verde, può a buon diritto presentarsi come un player di primaria statura.

In verità, già a partire dal discorso alla Sorbona del 2017, questi temi sono stati presenti nella narrazione europea proposta dal presidente francese e, da questo punto di vista, l’intervista che commentiamo non rappresenta una grande novità.

Così come non rappresenta una novità il fatto che nel pas des deux franco-tedesco, che va in scena ormai da diversi anni, i ruoli sembrano invertirsi. La Germania “federalista” che volle il trattato sull’Unione e poi il suo ripensamento a Lisbona appare oggi attestata su posizioni più attente alla sovranità statale, probabilmente per non complicarsi il dialogo con i Frugali e fors’anche con il Gruppo di Visegrad, mentre la Francia, che prima frenava quegli slanci, sembra tornata ai tempi, gloriosi senza dubbio, di Jacques Delors e della sua ampia visione europeista.

La vera novità mi sembra invece essere rappresentata dal deciso attacco che Macron sembra muovere al multilateralismo degli Stati, fin qui espresso dall’ONU e dal disegno globalista degli Stati Uniti, e dalla proposta di un nuovo multilateralismo basato sul coinvolgimento, accanto agli Stati, delle imprese, delle associazioni della società civile, degli attori locali. E dalla candidatura dell’Europa unita a un ruolo più attivo su questo nuovo scenario internazionale, questa una assoluta novità.

Il secondo elemento di interesse è costituito dal cosiddetto veto opposto da Ungheria e Polonia all'approvazione del Recovery Plan. 

In verità il “veto” riguarda l'aumento del "tetto delle risorse proprie" degli Stati membri, passaggio previo all’attuazione del  piano "Next Generation EU", e da approvarsi all’unanimità, mentre non tocca l’iter del testo di compromesso fra Parlamento europeo e Consiglio Ue, per il quale non è prevista l'unanimità, e che dunque passerà a maggioranza qualificata (ai sensi del Capo I del Titolo VIII del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), secondo quello che appare probabile al momento.

L’aumento del tetto delle risorse proprie degli Stati membri (da approvarsi all’unanimità) è però necessario per reperire i finanziamenti da utilizzare per avviare il Next Generation EU ed anche per approvare (anche qui all’unanimità tra l’altro) il Quadro finanziario pluriennale 2021-2027 e dunque qui sta l’effetto di “veto”.

A dire il vero non sarebbe nemmeno una notizia, dato che la posizione assunta era stata più volte anticipata. Come pure chiara a sufficienza è la motivazione: i due Stati non sono disposti ad accettare la norma, voluta dal Parlamento europeo, che prevede che l’erogazione dei fondi del Recovery Plan potrebbe essere congelata in caso di violazioni dei principi dello Stato di diritto, enunciati insieme ad altri principi quali valori fondanti dell’Unione europea fin dall’articolo 2 del Trattato che istituisce l’Unione europea (TUE).

Qualche parola di commento l’accaduto la merita però comunque. Cercheremo di comprendere meglio le complessive implicazioni di questa presa di posizione e di anticipare, per quanto possibile al momento, le probabili soluzioni di quello che indubbiamente si caratterizza come uno stallo sulla via, già di per sé ardua e accidentata, che conduce all’operatività piena del Recovery Plan e dunque alla disponibilità dei suoi finanziamenti di cui tutti gli Stati membri (incluse Polonia e Ungheria, non dimentichiamolo) hanno davvero bisogno.   

Tanto per cominciare, chiariamo come c’entra il discorso sullo Stato di diritto con la questione della disponibilità dei finanziamenti. C’entra perché, coerentemente con una posizione non da ora assunta, il Parlamento europeo ha ottenuto un consenso di massima dagli altri Stati sul fatto che Stati irrispettosi dei principi dello Stato di diritto potrebbero vedersi congelati i finanziamenti. E Polonia e Ungheria hanno notoriamente adottato riforme interne che certo non possono considerarsi in linea con i principi dello Stato di diritto: riforme che attentano alla indipendenza dei giudici, ad esempio, o alla libertà d’espressione dei giornalisti.

Ora, e non da ora, l’Unione europea affida al rispetto dello Stato di diritto e dei diritti umani e degli altri valori enunciati all’articolo 2 del Trattato sull’Unione la propria strategia di evoluzione che dovrebbe (il condizionale è comunque d’obbligo) portarla ad essere sempre più una organizzazione che si regge sulla garanzia di valori comuni e non un semplice mercato unico.

E come lo fa? Lo fa con la strategia della condizionalità, ossia subordinando la concessione di utilità e finanziamenti al rispetto di certi valori e principi. Come del resto avviene in diversi altri settori di attività.

Come si vede, quindi, quello che è in gioco in questo braccio di ferro è il futuro stesso dell’Unione e non solo la pur fondamentale problematica finanziaria.

Polonia e Ungheria la pensano infatti diversamente. Pensano che non sia una buona idea quella di imporre agli Stati membri regole e principi che li inducano ad adottare questo o quel regime interno, e questa è l’essenza di quello che oggi si chiama sovranismo, ed inoltre sanno benissimo di avere un assetto costituzionale interno che, anche a motivo di alcune recenti riforme (in materia di indipendenza della magistratura e di garanzia dei diritti fondamentali), oggi impedirebbe loro addirittura di divenire membri dell’Unione (se già non lo fossero) dato che l’articolo 49 del TUE prevede che “Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione” e comunque, dato che invece sono membri, li esporrebbe alla ennesima procedura sanzionatoria di cui all’articolo 7 che si origina appunto dalla constatazione anche solo di “un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2”.

Il cammino dell'Unione giunge così a un tornante difficile. 

Se è sotto gli occhi di tutti lo scontro tra Polonia, Ungheria e adesso anche la Slovenia e tutti gli altri Stati in ultima analisi sulla natura dell'Europa, se essa debba rimanere una unione economica di Stati o diventare una vera comunità di valori, meno evidente, ma non meno netto e profondo, è lo scontro in atto tra la Germania e la Francia. Questa chiede in sostanza una revisione dei trattati che dia nuovo slancio all'Unione, la Germania rimane fedele all'idea di una Unione di Stati, retta da accordi ispirati dalla ideologia tutta germanica dell'ordoliberalismo, nascosto dietro la formuletta dell'economia sociale di mercato fortemente competitiva (articolo 3 del Trattato sull'Unione europea).

Non chiediamoci dove sta l'Italia in tutto questo, perché è difficile trovare una risposta. E trovandola, potrebbe non piacerci. 





domenica 22 novembre 2020

Dublino IV. Ci arriveremo mai?

 Il 23 settembre scorso, la Commissione europea ha presentato il Nuovo patto europeo per l’immigrazione e l’asilo [COM (2020) 609 final], lasciando delusi quanti si aspettavano (troppo ottimisticamente) né più né meno che l'abrogazione del sistema Dublino.


Che si chiama così perché basato sulla convenzione di Dublino del 1990 che, di fronte a una questione migratoria vista allora come cosa di poche decine o centinaia di persone, si preoccupava solo di stabilire quale Paese europeo fosse competente ad esaminare una richiesta di protezione internazionale, individuandolo nel Paese europeo nel quale il migrante avesse toccato il suolo europeo per la prima volta.

Questo approccio è rimasto in vigore attraverso le varie riedizioni della normativa europea, ma, di fronte a flussi di persone che hanno rapidamente raggiunto le centinaia di migliaia e che si sono da subito presentati come flussi misti (ossia composti da persone che possono aver diritto alla protezione internazionale e altre che non ne posseggono i requisiti), ha finito per gravare in maniera sproporzionata i Paesi mediterranei dell’Unione ed in particolare, come si sa, l’Italia e la Grecia.

Si è cercato più volte di uscire da questa situazione evocando obblighi di ricollocazione in altri Paesi dell’Unione, fondati sul principio di solidarietà previsto dall’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione.

Non si è ottenuto alcunché, nonostante l’intervento della Corte di Giustizia, che, più volte ha deciso che gli Stati non possono sottrarsi all'obbligo di solidarietà.

E nemmeno il Nuovo patto della von der Leyen, prevede la ricollocazione come oggetto di un vero e proprio obbligo giuridico.   

E, inoltre, esso appare deludente anche perché non segna l’abbandono della riduttiva prospettiva fin qui seguita dall’Unione europea. Quella cioè di non voler considerare il fenomeno migratorio come una vera e propria crisi, implicante la necessità di misure straordinarie, attenendosi invece ai principi del diritto internazionale in materia, secondo il quale non esiste, in verità, almeno fino a questo momento, un diritto a migrare giuridicamente riconosciuto a tutti gli uomini.

E così l’Unione ha costruito un sistema volto più a tutelare i propri cittadini che i migranti cui vengono riconosciuti diritti solo se possono aspirare alla protezione internazionale. 

Di qui l’accento posto anche dalla proposta von der Leyen sul rafforzamento della tutela delle frontiere esterne, attraverso un rilancio delle competenze e dei poteri di Frontex, l’agenzia dell’Unione europea preposta al controllo delle frontiere.

Restano delusi certo gli ottimisti, ma anche chi, come noi, pensa di ispirarsi a un prudente realismo.

Davvero, si poteva fare di più, comprendere che non è possibile descrivere l'Unione come capace di portare soccorso dovunque ci siano crisi e poi abbandonare al loro destino i migranti nel Mediterraneo.

Frontex non può essere la risposta.