Giunge la notizia della presa di Palmira da parte
dell’ISIS. E’ difficile al momento fare chiarezza sull’entità dei danni che
costoro possano aver provocato al patrimonio archeologico di questa e delle altre
zone che controllano. A parte l’ormai famigerato video girato nel museo di
Mosul, la documentazione è scarsa e
probabilmente volutamente imprecisa. E’ altrettanto difficile chiarire in
maniera univoca se la distruzione di tante reliquie del passato ad opera di
miliziani appartenenti al sedicente Stato islamico sia dovuta a una “genuina”
preoccupazione del loro fondamentalismo religioso ovvero all’intento di
immettere sul mercato clandestino dei reperti molti di questi oggetti o loro
parti.
Per entrambe le cose ci sono purtroppo precedenti: per
la prima la distruzione intenzionale dei Budda di Bamiyan nel 2001 da parte
della furia iconoclasta dei Talebani, o più recentemente, credo tra il 2012 e
il 2013, la distruzione dei mausolei di Timbuktu in Mali anche qui da parte del
fondamentalismo islamico. Per la seconda basterà qui citare la sistematica
spoliazione del museo nazionale iracheno di Bagdad nel 2003 e la massiccia
immissione sul mercato degli oggetti d’arte che ne seguì.
Da punto di vista del diritto internazionale non è
nemmeno necessaria questa distinzione perché entrambe le ipotesi sono
ascrivibili alla categoria della “distruzione intenzionale” delle opere d’arte
della quale si occupa la Dichiarazione UNESCO del 2003.
Ma che dice
nella sostanza la Dichiarazione? Raccomanda, perché di più essendo una
Dichiarazione non può fare, agli Stati
sia di aderire ai trattati esistenti,
sia di impegnarsi per l'adozione di
strumenti giuridici che proteggano in maniera sempre più efficace il patrimonio culturale (art. III, par. 4)
nonché di ispirare la loro azione ai principi relativi alla protezione del
patrimonio culturale in tempo di pace (art. IV) e di conflitto armato (art. V).
La
Dichiarazione tenta poi di definire cosa debba intendersi per "distruzione
intenzionale" che si ha quando si commette un atto inteso a distruggere in
tutto o in parte il patrimonio culturale, compromettendone l’integrità, in una
maniera che costituisce una violazione del diritto internazionale o una offesa
ingiustificabile ai principi di umanità o ai dettami della pubblica coscienza,
quando questi atti non siano già regolati dai principi fondamentali del diritto
internazionale (art. II, par. 2). Formula che nella sua apparente volontà di
dire tutto finisce per svuotarsi di senso da sola, dato che rischia di evocare
(anzi di fatto fa proprio questo) quelle norme del diritto internazionale
bellico che vietano di usare i siti culturali come postazioni militari e
dunque, indirettamente, permettono in questi casi di attaccarli adducendo la
“necessità militare”.
Come
meravigliarsi dunque che la Dichiarazione sia venuta fuori così prudente? E
che, come molti hanno evidenziato con disappunto, affermi all’articolo III
para. 1 che gli Stati “dovrebbero” adottare ogni misura idonea a prevenire e
impedire gli atti di distruzione intenzionale del patrimonio culturale? Perché
limitarsi a dire “dovrebbero” quando un simile obbligo era stato già espresso
in termini ben più vincolanti in varie disposizioni dei trattati esistenti?
La verità è
che seppure tutti erano pronti a condannare quanto accaduto, molti tra gli
Stati temettero che a dir le cose troppo nettamente si sarebbero poi trovati le
mani legate sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Insomma ancora una
volta è la Realpolitik degli Stati a creare difficoltà che si riscontrano in fin dei
conti, come abbiamo ricordato su queste stesse pagine, anche per altri
strumenti internazionali in materia di tutela del patrimonio culturale.
E’ giunto il momento,
dunque, almeno credo, di fare sul serio, come, sia consentito il ricordarlo,
andiamo ripetendo da tempo. Che si
provveda ad una generale
riorganizzazione delle strategie di protezione internazionale dei beni
culturali, sottraendole al dare e avere delle relazioni diplomatiche e dando vita
a un corpo di funzionari internazionali, magari anche quelli ben preparati e
motivati dell’UNESCO e delle tante organizzazioni non governative attive nel
settore, ma dotati dei poteri e delle
competenze necessari per intervenire efficacemente su problemi tanto delicati. Prima che sia troppo tardi.
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