giovedì 21 maggio 2015

L'ISIS prende Palmira



Giunge la notizia della presa di Palmira da parte dell’ISIS. E’ difficile al momento fare chiarezza sull’entità dei danni che costoro possano aver provocato al patrimonio archeologico di questa e delle altre zone che controllano. A parte l’ormai famigerato video girato nel museo di Mosul,  la documentazione è scarsa e probabilmente volutamente imprecisa. E’ altrettanto difficile chiarire in maniera univoca se la distruzione di tante reliquie del passato ad opera di miliziani appartenenti al sedicente Stato islamico sia dovuta a una “genuina” preoccupazione del loro fondamentalismo religioso ovvero all’intento di immettere sul mercato clandestino dei reperti molti di questi oggetti o loro parti.
Per entrambe le cose ci sono purtroppo precedenti: per la prima la distruzione intenzionale dei Budda di Bamiyan nel 2001 da parte della furia iconoclasta dei Talebani, o più recentemente, credo tra il 2012 e il 2013, la distruzione dei mausolei di Timbuktu in Mali anche qui da parte del fondamentalismo islamico. Per la seconda basterà qui citare la sistematica spoliazione del museo nazionale iracheno di Bagdad nel 2003 e la massiccia immissione sul mercato degli oggetti d’arte che ne seguì.
Da punto di vista del diritto internazionale non è nemmeno necessaria questa distinzione perché entrambe le ipotesi sono ascrivibili alla categoria della “distruzione intenzionale” delle opere d’arte della quale si occupa la Dichiarazione UNESCO del 2003.
Ma che dice nella sostanza la Dichiarazione? Raccomanda, perché di più essendo una Dichiarazione non può fare,  agli Stati sia di aderire ai  trattati esistenti, sia  di impegnarsi per l'adozione di strumenti giuridici che proteggano in maniera sempre più efficace il  patrimonio culturale (art. III, par. 4) nonché di ispirare la loro azione ai principi relativi alla protezione del patrimonio culturale in tempo di pace (art. IV) e di conflitto armato (art. V).

La Dichiarazione tenta poi di definire cosa debba intendersi per "distruzione intenzionale" che si ha quando si commette un atto inteso a distruggere in tutto o in parte il patrimonio culturale, compromettendone l’integrità, in una maniera che costituisce una violazione del diritto internazionale o una offesa ingiustificabile ai principi di umanità o ai dettami della pubblica coscienza, quando questi atti non siano già regolati dai principi fondamentali del diritto internazionale (art. II, par. 2). Formula che nella sua apparente volontà di dire tutto finisce per svuotarsi di senso da sola, dato che rischia di evocare (anzi di fatto fa proprio questo) quelle norme del diritto internazionale bellico che vietano di usare i siti culturali come postazioni militari e dunque, indirettamente, permettono in questi casi di attaccarli adducendo la “necessità militare”.

Come meravigliarsi dunque che la Dichiarazione sia venuta fuori così prudente? E che, come molti hanno evidenziato con disappunto, affermi all’articolo III para. 1 che gli Stati “dovrebbero” adottare ogni misura idonea a prevenire e impedire gli atti di distruzione intenzionale del patrimonio culturale? Perché limitarsi a dire “dovrebbero” quando un simile obbligo era stato già espresso in termini ben più vincolanti in varie disposizioni dei trattati esistenti?

La verità è che seppure tutti erano pronti a condannare quanto accaduto, molti tra gli Stati temettero che a dir le cose troppo nettamente si sarebbero poi trovati le mani legate sia in tempo di pace che in tempo di guerra. Insomma ancora una volta è la Realpolitik degli Stati a creare difficoltà che si riscontrano in fin dei conti, come abbiamo ricordato su queste stesse pagine, anche per altri strumenti internazionali in materia di tutela del patrimonio culturale.

E’ giunto il momento, dunque, almeno credo, di fare sul serio, come, sia consentito il ricordarlo, andiamo ripetendo da tempo.  Che si provveda ad  una generale riorganizzazione delle strategie di protezione internazionale dei beni culturali, sottraendole al dare e avere delle relazioni diplomatiche e dando vita a un corpo di funzionari internazionali, magari anche quelli ben preparati e motivati dell’UNESCO e delle tante organizzazioni non governative attive nel settore,  ma dotati dei poteri e delle competenze necessari per intervenire efficacemente su problemi  tanto delicati. Prima che sia troppo tardi.

giovedì 14 maggio 2015

L'Europa che non c'è. Un ciclo di seminari sull'attuazione e l'inattuazione del diritto dell'Unione europea in Italia



Ha preso l’avvio venerdì 8 maggio  a Villa Cerami il primo ciclo di seminari del progetto “L’Europa che non c’è.  Attuazione e inattuazione del diritto dell’Unione europea in Italia”, promosso dalla cattedra di diritto internazionale e diritto dell’Unione europea del Dipartimento di Giurisprudenza e organizzato in collaborazione con “Prime Note. Le voci dei giovani e il diritto internazionale in Europa”, “Coesione & Diritto Centro Studi e Ricerche” e due associazioni studentesche: il Catania Chapter dell’ILSA (International Law Students Association)  e il Comitato promotore della sezione catanese dell’ELSA (European Law Students Association).

«Il progetto “L’Europa che non c’è”mira ad evidenziare quanto sia complesso il processo di attuazione del diritto dell’Unione europea in Italia, a motivo di molteplici fattori, tra i quali spiccano certo i ritardi della pubblica amministrazione, ma non vanno sottovalutate le difficoltà che scaturiscono da certi modi di essere del nostro ordinamento giuridico e da certe rigidità culturali del ceto dei giuristi. Per questo motivo, desiderando spingere la propria analisi oltre i confini di un approccio accademico, la cattedra ha promosso nell’ambito del  progetto di ricerca un primo ciclo di seminari che saranno tutti tenuti da avvocati e altri professionisti e che sono organizzati con la collaborazione di associazioni di studenti universitari e di professionisti del settore».

L’8 maggio la relazione di Giovanna Scalambrieri, avvocato amministrativista, autrice di numerosi contributi scientifici e divulgativi sul diritto amministrativo italiano ed europeo, ha approfondito il  tema “Le criticità del processo italiano di recepimento  della normativa UE in materia di contratti pubblici”.

Domani, venerdì 15 maggio, sempre nei locali del Dipartimento di Giurisprudenza (ore 12, Aula 1 di Villa Cerami) il dottor Vincenzo Guggino, Segretario Generale dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria e componente dell’Executive Committee e del  Board della EASA (European Advertising Standards Alliance) interverrà sul tema “La dimensione europea dell’Autodisciplina Pubblicitaria. Self-regulation, Co-regulation e lo Stato”. 

L’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria – IAP, istituito nel 1966 con sede a Milano, ha redatto il Codice italiano di autodisciplina della comunicazione commerciale, e ne cura l’applicazione attraverso i propri organi. L’Unione europea in quasi tutte le direttive in materia di comunicazione commerciale ha incoraggiato e incoraggia gli Stati membri a trovare delle forme sinergiche di collaborazione con le autodiscipline nazionali, tutte facenti parte di una rete europea, l’EASA.  


Guggino  analizzerà il sistema italiano di autodisciplina, alcune delle decisioni giurisprudenziali più rilevanti e recenti,  sia a tutela delle aziende che dei cittadini/consumatori, per mostrare l’efficienza del sistema. Si soffermerà poi su come alcuni Stati hanno affrontato il tema della co-regolamentazione in questo settore, e in particolare su che cosa ha fatto o non ha fatto lo Stato italiano.