di Rosario Sapienza
Si celebra oggi in tutto il
mondo
la Giornata
Mondiale dei Diritti Umani (
http://www.un.org/en/events/humanrightsday/
). La data è stata scelta per ricordare la proclamazione da parte dell'Assemblea
Generale delle Nazioni Unite della Dichiarazione universale dei diritti umani,
il 10 dicembre 1948 con la risoluzione 217/III, un testo che a sessantaquattro
anni dalla sua approvazione mantiene intatta la sua forza morale, ma purtroppo
anche le sue intrinseche debolezze.
La Giornata è uno degli
eventi di punta nel calendario del quartier generale delle Nazioni Unite a New
York ed è onorata con conferenze di alto profilo politico ed eventi culturali
come mostre o concerti riguardanti l'argomento dei diritti umani. Inoltre, in
questa giornata vengono tradizionalmente attribuiti i due più importanti
riconoscimenti in materia, ovvero il Premio delle Nazioni Unite per i Diritti
Umani, assegnato a New York, e il Premio Nobel per la pace ad Oslo. Quest’anno il premio Nobel per la pace sarà
assegnato all’Unione europea per il complesso della sua azione per il
mantenimento della pace sul territorio degli Stati europei.
In tutto il mondo, poi, molte
altre organizzazioni, intergovernative e non governative, scelgono questa
giornata per eventi significativi che celebrano i diritti umani e sottolineano
l’urgenza della loro protezione. Lo faremo anche noi, dedicando una particolare
attenzione al tema indicato come oggetto quest’anno di una particolare
attenzione, ossia il diritto di tutti, singoli, gruppi e anche interi
popoli, alla libertà d’espressione e di
associazione.
Benché
il testo della Dichiarazione sia arcinoto, può essere qui utile brevemente
richiamarne la struttura. La
Dichiarazione consta di 30 articoli che possono essere così
ordinati: gli articoli 1-2 enunciano i diritti di tutti gli uomini alla libertà
ed eguaglianza; gli articoli 3-11 contengono una riproposizione dei diritti di libertà individuale, tra i quali
all’art. 9 il cosiddetto habeas corpus;
gli articoli 12-17 enunciano i diritti dell'individuo nella comunità in cui
egli è inserito; gli articoli 18-21 riprendono il catalogo delle cosiddette
"libertà borghesi", ossia la libertà di pensiero, coscienza e
religione (art. 18), di opinione e di espressione (art. 19), di riunione e di
associazione pacifica (art. 20), di partecipazione politica (art. 21); gli
articoli 22-27 enunciano i diritti economici, sociali e culturali, e cioè il
diritto alla sicurezza sociale (art. 22), al lavoro (art. 23), al riposo e allo
svago (art. 24), a un tenore di vita adeguato (art. 25), all’istruzione (art.
26), alla cultura (art. 27); gli articoli 28-30, a mo’ di conclusione chiariscono le
condizioni alle quali è possibile il godimento dei diritti precedentemente enunciati,
in particolare sottolineando il diritto “a un ordine sociale e internazionale
nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano
essere pienamente realizzati” (art. 28), richiamando i possibili fondamenti dei
limiti al godimento dei diritti (art. 29), escludendo che la Dichiarazione possa
essere utilizzata per raggiungere lo scopo di attentare al godimento dei
diritti in essa enunciati (art. 30).
Nell’intenzione
dei proponenti, la Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo doveva rappresentare a livello mondiale quello che nelle
costituzioni degli Stati liberali era il cosiddetto Bill of Rights, ossia l’elenco dei fondamentali diritti della
persona umana. L’idea della protezione dei diritti umani non era un’idea nuova.
È noto infatti che le prime Dichiarazioni dei diritti dell’uomo risalgono al
settecento ed esprimono la pressante urgenza di affermare l’esigenza di difesa
della libertà del cittadino nei confronti di uno Stato tradizionalmente visto
come avversario delle libertà. Sono, dunque, delle dichiarazioni “borghesi”, che ci
consegnano un modello di Stato attento a non invadere gli spazi di libertà del
singolo cittadino. Queste dichiarazioni le ritroviamo ancora, aggiornate e
integrate, in molte costituzioni statali.
Rispetto ad esse, però, la Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo presentava alcune fondamentali differenze. Innanzitutto,
per quel che riguardava la sua forza obbligatoria. Mentre le Dichiarazioni dei
diritti che fanno parte delle Carte costituzionali degli Stati sono delle vere
e proprie leggi, anzi hanno talvolta una forza superiore a quella della stessa
legge, la
Dichiarazione Universale, come molte altre Dichiarazioni
delle organizzazioni internazionali, aveva il valore di una semplice raccomandazione
indirizzata dall'Assemblea Generale agli Stati. In altri termini, pur avendo un
alto valore morale, la
Dichiarazione non imponeva agli Stati l’obbligo di proteggere
i diritti in essa contenuti, ma semplicemente raccomandava loro di farlo. E
risulta comunque dagli atti della commissione chiamata ad elaborarla che essa
si propose espressamente di redigere un testo giuridicamente non vincolante.
Ma c’era un altro elemento di debolezza della
Dichiarazione e consisteva nel fatto che mentre le Dichiarazioni dei diritti
adottate all'interno degli Stati esprimevano una concordanza su certi valori
fondamentali, la
Dichiarazione Universale rappresenta piuttosto il compromesso
tra visioni della società non solo diverse fra di loro, ma addirittura antitetiche
e contrapposte. E così, anche se la Dichiarazione enunciava certi diritti, era chiaro
fin dall’inizio che questi diritti avrebbero significato cose diverse a seconda
del Paese nel quale ad essi si dovesse dare tutela. Una cosa, per esempio, era
parlare di libertà d’espressione negli Stati occidentali, un’altra negli Stati
socialisti. E questo, diciamo così, equivoco di fondo, avrebbe segnato in
maniera indelebile anche i successivi sviluppi in materia. Anche se deve
precisarsi che in certa misura la difficoltà di fare emergere valori comuni
dipende proprio dalla presenza tra gli Stati di differenti concezioni in
materia e non da un atteggiamento di voluta sfiducia nella possibilità di dare
un fondamento “forte”, ossia radicato nei valori, alla protezione
internazionale dei diritti dell’uomo. D’altra parte anche se è vero che il testo fu
adottato all’unanimità (nel senso che non ebbe alcun voto contrario) è pure vero che numerose furono le astensioni
(tutti i Paesi dell’Europa dell’Est, l’Arabia Saudita, il Sudafrica) e che due
Paesi non parteciparono al voto (Honduras e Yemen).
E ancor oggi,
come a proposito del testo della Dichiarazione, la presenza nel mondo di differenti visioni
culturali sull’uomo e sul suo rapporto con la società e le istituzioni politiche
rappresenta un problema per il sistema delle Nazioni Unite. Nonostante
l’esistenza di numerosi trattati internazionali sui diritti dell’uomo, fatica
ad emergere una visione uniforme sui diritti umani. E, in una certa misura, è
anche giusto (oltre che inevitabile) che sia così, poiché nessun popolo può
rinunciare alla sua identità e originalità che gli viene dalle sue tradizioni e
dalla sua cultura.
Il testo che
venne approvato nel 1948 parla di diritti uguali per tutti e in questo senso può
venire descritto come una rielaborazione del portato giusnaturalistico in tema
di diritti umani: ma come non notare che la stessa idea giusnaturalistica di diritti uguali per tutti è un’idea di marca occidentale?
In fondo, lo
stesso ideale internazionalista del pacifismo tardo ottocentesco, incarnatosi,
anche se tardivamente, nelle organizzazioni internazionali universali, non riesce
ad imporsi e non solo perché all’interno
di quelle organizzazioni i Paesi non occidentali hanno una posizione di sicuro
predominio, quantomeno numerico. Ciò accade perchè l'estensione di quei valori
si scontra con formidabili difficoltà legate alla diversità di fondo dei
sostrati culturali che caratterizzano gli Stati nel mondo, mentre, invece,
l'ideale pacifista e umanitario del tardo ottocento pretende di costruire una
pace che riposi su una comune civiltà, sull’accettazione di valori comuni e di
un comune sentire dei popoli della terra. Esso finisce quindi con il giudicare
intollerabile il fatto che dietro la sovranità statale si celino valori e modi
di incarnarli assai differenti e quindi con il non poter “accontentarsi” di un
ordine semplicemente convenzionale.
In realtà,
quel pacifismo nasceva da una visione del mondo come retto da valori e regole
universali perchè fondati su un comune sostrato culturale universale, su una
sorta di diritto naturale universale, kantianamente affermato in termini per la
verità piuttosto apodittici e ingenui.
Esiste invece uno scarto culturale tra l’Occidente
e altre aree culturali, scarto che fa sì che il compito di costruire valori
comuni che possano determinare una comune civiltà planetaria è assai arduo ed
è, tutto sommato, ancora agli inizi. Non basta adottare strumenti
internazionali in materia di diritti umani per far sì che i valori occidentali
che di quegli strumenti sono il terreno di coltura si diffondano ipso facto a livello planetario. Ed è singolare,
in verità, che un Occidente che ha prodotto gli studi di antropologia culturale
non riesca a comprendere questo limite del suo ideale pangiuridico universale.
Certo è che fino a quando non lo si comprenderà e non si opererà concretamente
per un reale dialogo interculturale prima che internazionale, non si potrà dire
di aver posto nemmeno la prima pietra all'edificazione di una comune civiltà
giuridica a livello mondiale.
Nonostante questa difficoltà, un elemento di
novità maturato in questi anni è invece rappresentato dal crescere
dell’interesse per la tematica della protezione dei diritti umani nella queste
tematiche, all’interno dei singoli Stati. Nascono dunque istituzioni promosse
dalla società civile, la cui creazione è anche raccomandata dalla risoluzione
48/134 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e che presentano l’indubbio
vantaggio di affiancare all’azione governativa per il rispetto dei diritti
dell’uomo, una azione della gente comune per la tutela dei diritti.
Ciò
produce un primo risultato importantissimo: quello di sottrarre la materia dei
diritti umani e della loro protezione all’esclusiva competenza dei governi facendo
diventare questi temi oggetto di un dibattito culturale e politico. E così
facendo si invera la dimensione autenticamente costituzionale di un testo come la Dichiarazione
Universale, patrimonio dunque condiviso e ispiratore di
prassi attuative anche differenziate, ma concorrenti, secondo diverse
tradizioni, ma sottratte al calcolo politico degli apparati.
Così la
dimensione internazionale e quella nazionale, la dimensione istituzionale e
quella della società civile si integrano e si consolida quella coscienza
sociale che fa della protezione dei diritti umani un obiettivo politico, in
senso alto, e non di parte, sottraendolo alla logica della ragion di Stati,
rispetto alla quale i diritti umani appaiono dunque una frontiera sempre
ulteriore, uno strumento di dialettica e di critica, un continuo rimando ad un
altrove, fondato sull’inalienabile diritto dell’uomo alla propria originalità
di essere irriducibile a qualunque manipolazione.